La strategia di Putin rilancia la Russia nello scenario globale
18 Luglio 2007
“Maneggiare con cura”. Questa era la scritta in evidenza
sul pacco con il quale sabato scorso è stata recapitata la notizia della
decisione del presidente russo Vladimir Putin di ritirare il proprio paese dal
Trattato sulle forze convenzionali in Europa (Cfe). Quella del capo dello stato
russo con passato di alto funzionario dei servizi segreti rappresenta
senz’altro una decisione attentamente ponderata e pianificata. Ancor di più,
essa deve essere presa come un chiaro e netto messaggio come quelli cui si fa
spesso ricorso nelle delicate manovre delle relazioni internazionali.
Sebbene abbia provocato delusione e rammarico presso le
cancellerie europee e a Washington, il decreto firmato sabato scorso non segna
che uno stadio di evoluzione del tutto prevedibile e atteso dei rapporti tra
Mosca e l’Occidente. Ma questa conclusione non emerge soltanto dallo scambio di
parole dure iniziato in occasione della Conferenza di Monaco sulla sicurezza –
quando Putin ha lanciato il suo attacco frontale ai piani nordamericani di un
nuovo sistema di sicurezza in Europa – e riproposto con toni addirittura
personali alla vigilia del tour diplomatico del presidente americano Bush nel
Vecchio continente. E’ piuttosto la constatazione di una nuova situazione
geostrategica nell’emisfero occidentale. Lo stesso trattato oggetto della
discordia era da ritenersi obsoleto in quanto sottoscritto nel 1990 e poi
modificato parzialmente nel 1999, senza cioè tenere conto dei più recenti
sviluppi sulla scena. Tra questi ultimi, infatti, vi è l’ultima ondata di
ampliamento della NATO con l’ingresso della Bulgaria e della Romania, la
decisione degli Stati Uniti di dislocare nei territori dei nuovi alleati
atlantici delle basi logistiche militari che spostassero il baricentro della
difesa europea dalla Germania al Mar Nero. Vi si sono aggiunte inoltre il lungo
concatenamento di eventi burrascosi nelle due più importanti ex repubbliche
sovietiche – Bielorussia e Ucraina – ove i movimenti rivoluzionari interni
ricevono un forte sostegno politico e finanziario dall’esterno. In più, le
recenti visite di Bush a Sofia e, soprattutto, in Albania hanno fatto rivivere
scene di giubilo simili a quelle della fine della Seconda guerra mondiale in
paesi che oggi fanno parte della cosiddetta “vecchia Europa”.
Si badi bene: le ricadute del ritiro della Russia dal
Trattato non saranno così drammatiche come possono sembrare; e anche questo fa
parte del piano disegnato da Putin. Più che un ritorno alla corsa agli
armamenti convenzionali in Europa, questa decisione limiterà lo scambio di
informazioni con la Nato, a scapito innanzi tutto della fiducia reciproca. Non
bisogna dimenticare che la versione del 1999 non è stata nemmeno firmata dalla
Nato che ha insistito per una riduzione delle forze russe in Cecenia, Moldavia
ecc. Non solo, Putin sa bene che non è stato l’unico a venir meno agli obblighi
pattuiti: è stato lo stesso Bush a sospendere unilateralmente l’applicazione
del Trattato sulla limitazione dei missili balistici (Abm).
Oltre al processo di riassestamento da tempo in corso in
Europa e dintorni, sulla tempistica della decisione del Cremlino hanno influito
anche fattori interni per quanto riguarda sia la Russia che gli USA. Da un
lato, infatti, Putin si sta avvicinando alla tornata elettorale del 2008 e, non
avendo la possibilità di ricandidarsi per un terzo mandato, punta sulla carta antioccidentale
e antiamericana che da sempre ha mostrato la propria efficacia nel
rafforzamento dei consensi interni. D’altro canto, la situazione di Washington
è tutt’altro che tranquilla a causa dell’Iraq, del continuo braccio di ferro
tra presidente e maggioranza democratica, ma anche per lo scetticismo ostentato
da alcuni alleati occidentali riguardo al progetto dello scudo
antimissilistico.
L’obiettivo, infine, è semplicemente quello di riaffermare
la nuova posizione conquistata negli ultimi anni della Russia. Attenzione,
però, a dire che si tratta di un ritorno al ruolo di potenza egemonica del
periodo della Guerra fredda. E’ semplicemente un monito agli altri per dire che
la Russia è e rimane un attore globale che non può essere isolato né – e sarebbe
il caso peggiore – sentirsi schiacciata tra il blocco occidentale da una parte
e le potenze emergenti della Cina e dell’India dall’altra.
Il contenuto del messaggio ed il suo mittente sono
chiari. Ora tocca all’Europa e agli USA trovare il miglior modo per rispondere.
Il loro linguaggio deve essere fermo e deciso, ma cauto al tempo stesso per non
provocare inutili allarmismi, frustrazioni e ricorsi a infinite serie di mosse
di tipo “tit-for-tat”. E’ evidente che vi sono due livelli di
comunicazione – il primo ufficiale e retorico, il secondo dei negoziati veri.
Vanno sfruttati entrambi, rispettivamente con un’attenta misurazione di toni e
minacce e trattando nei cinque mesi che restano fino all’abbandono definitivo
del Cfe da parte della Russia. Sotto questo profilo, giunge forse nel momento
sbagliato la vicenda delle indagini sulla morte dell’ex spia russa Litvinenko e
la successiva espulsione dei diplomatici russi. Senza ombra di dubbio, Londra
ha ragione a cercare una risposta forte al rifiuto di Mosca di consegnare il
presunto colpevole, ma dovrà calibrare le future mosse per evitare
l’esasperazione che farebbe solo il gioco dei russi. Prendendo come spunto il
divieto di estradizione vigente in Russia nonché la proposta di celebrare a
Mosca il processo a carico dell’agente Lugovoi, qualcuno dalle pagine del Financial
Times consigliava addirittura di adottare la tattica del wait and see
per avere una conferma a livello internazionale dell’insufficiente livello di
democrazia e stato di diritto in Russia. Ma anche questo sarebbe insufficiente.
Pensando ad una soluzione, vi sarebbe anche una terza via
per promuovere il dialogo. Essa ci viene offerta dalle relazioni
economico-commerciali che non hanno mai avuto nella storia livelli di sviluppo
simili a quelli attuali. E questo non solo per la famigerata dipendenza
dell’Europa dal gas russo, ma anche perché Mosca ha bisogno degli investitori
stranieri, delle tecnologie e del know-how occidentale. Isolare un potenziale
pretendente in un mondo unipolare assai instabile e minato dal terrorismo
internazionale sarebbe infinitamente controproducente. Piuttosto, è
nell’ascolto e nella condivisione di vantaggi che si trova la strada maestra
verso la convivenza pacifica. Per altro, il summit delle aragoste e la diplomazia
dei sorrisi non sono cose così lontane nel tempo.