La terza via di Veca va a sbattere contro la libertà
07 Novembre 2008
Ci sono problemi che i teorici della terza via, come Salvatore Veca, sembrano ignorare:
a. Quali misure politiche dovrebbero venire adottate per garantire agli individui <la loro autonomia di agenti morali liberi ed eguali>? Una rigida pianificazione economica che sarebbe l’unico modo di prendere sul serio il primo articolo della Costituzione italiana che vuole la Repubblica <fondata sul lavoro> e che, quindi, se le parole non sono ‘leggere’ ,prefigura un vero e proprio <diritto al lavoro> garantito soltanto dal controllo pubblico di tutta la produzione? Un Welfare State come quello dei laburisti ‘prima maniera’, che fu talmente disastroso per l’economia britannica da richiedere le cure drastiche della Signora Thatcher? Un riformismo realistico alla Tony Blair che però non si vede, in alcun modo, come possa soddisfare la <libertà come non dominio> teorizzata dal ‘repubblicanesimo civico’ di Pettit ? ‘Lasciar fare’ alla gallina dalle uova d’oro, come Filippo Turati, chiamava il capitalismo imprenditoriale, in modo che produca ricchezza e che ne riversi almeno un poco su chi occupa i piani bassi della piramide sociale ma, in tal modo, non si fuoriesce dal tutto dalla ‘terza via’?
b. Ogni attribuzione alla sfera pubblica di competenze impegnative, come una più equa redistribuzione del prodotto sociale, sposta inevitabilmente l’asse del potere e dell’influenza dagli attori sociali agli attori politici. Per dirla con parole semplici, diventano meno potenti i ‘padroni delle ferriere’ (il che è un bene) e più potenti i burocrati (il che è un male). Non senza ragione, Alexis de Tocqueville, vedeva nell’elefantiasi dell’amministrazione statale la quintessenza del ‘socialismo reale’.
La moltiplicazione di uffici, competenze, funzionari, dirigenti–specialmente in un paese come l’Italia ossessionato dal ‘posto sicuro’–non è necessariamente una cosa cattiva (se non altro, risolve per tanti il problema dell’occupazione!) ma comporta, e non solo per il vile metallo di cui sono fatti gli uomini in conseguenza del peccato originale o del ‘legno storto’ di kantiana memoria, l’uso non controllato dei denari del contribuente, gli arbitrii dettati dagli interessi di parte o dalle ideologie, la sospensione dei diritti soggettivi (si resta sconcertati dal numero dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche entrati senza concorso!), le solidarietà politiche che si creano tra ministeri, da un lato, e banche, imprenditori, partiti, dall’altro. Quando Riccardo Lombardi parlava delle condizioni favorevoli, in Italia, al socialismo—il controllo diretto o indiretto da parte dello Stato di oltre il 60% dell’economia—riteneva che fossero la corruzione e le collusioni democristiane le responsabili del mancato sfruttamento di così favorevoli opportunità. Non lo sfiorava il sospetto che la causa, in realtà, fosse l’effetto e che proprio il mix di pubblico e privato fosse alle origini del degrado della vita pubblica. <Il potere corrompe>, insegnava Constant, anche se del ‘kratos’è titolare il ‘demos’ : <vaghe dichiarazioni in favore della sovranità del popolo, non oppongono nessuna barriera alle usurpazioni del potere. Sono sempre i depositari del potere—sia legislativo od esecutivo—ad esprimere la volontà del popolo sovrano>.
Certo Veca, come gli altri rawlsiani italiani, non è uno statalista e anzi ha il senso dei pericoli che farebbe correre alla libertà un governo onnipresente e pervasivo. E, tuttavia, quando scrive che
<in una prospettiva di sinistra, incentrata sulla priorità dell’eguale valore della eguale libertà per le persone, la risposta all’importanza etica dell’autonomia di uomini e donne si traduce in una politica di estensione dei diritti di cittadinanza. Una politica che mira a estendere la gamma di opzioni e di progetti di vita per persone che hanno un’essenziale varietà di scopi e valori. Come dire:libertà, uguaglianza e diversità>
Non può eludere la domanda: chi se non la dimensione statale dovrebbe farsi carico della <estensione dei diritti di cittadinanza>? E quali saranno i costi che la collettività nazionale è disposta a pagare per tale estensione? E in quali ambiti vitali? E secondo quali priorità? E ,per stabilirlo, lo chiederemo direttamente alla ‘gente’ attraverso regolari consultazioni elettorali o interpelleremo i filosofi del diritto e della politica?
<Nella versione e nella narrativa della sinistra—scrive ancora Veca—la comunità della cittadinanza democratica è aperta e inclusiva, una volta definiti i termini equi della condivisione dei fondamentali per chiunque, che è condivisione di diritti e di doveri civici>
Ma anche qui: quali ‘doveri’?’Quali diritti? Dal momento che tutti, a destra come a sinistra, almeno in teoria, riconoscono il diritto di <poter liberamente costituire e ricostituire cerchie di riconoscimento multiple, cui corrispondono mutevoli identità>, il problema ridiventa quello, serissimo, del <chi paga>(fu su una domanda del genere che esplose il conflitto tra i sudditi americani e la corona inglese sullo scorcio del XVIII secolo) e fino a che punto siamo tenuti a rispettare le identità e la dignità degli altri. Qualche anno fa, in una scuola elementare di una cittadina ligure, le maestre decisero di non allestire, come si faceva da tempo immemorabile, il presepe per i bambini. In una classe, infatti, c’erano tre extracomunitari di fede islamica che si sarebbero sentiti esclusi dalla festa. A differenza degli amici liberali con tentazioni teocon, non trovo illegittima la decisione delle insegnanti : trovo, invece, profondamente illiberale la posizione dei neo-illuministi che, ritenendo la controversa decisione in linea con la laicità (<laicità e democrazia ‘simul stabunt simul cadent’), giudicano retrogradi e intolleranti i suoi critici. Insomma, se si vuole davvero convivere nel reciproco rispetto, occorre che i valori—sia quelli congeniali ad una formazione illuministica sia quelli che si riferiscono alla comunità, alle radici—ottengano un eguale riconoscimento (purché non lesivi di diritti individuali) astenendosi dal gerarchizzarli e che a decidere quali privilegiare e quali no (con decisioni sempre reversibili) sia, di volta in volta, l’uomo della strada, detentore della ‘sovranità dei moderni’.
Il timore è che una equità amabile e salottiera diventi il cavallo di Troia per rimettere in circolazione obsoleti topoi ideologici.
Ne è una spia non poco significativa l’incondizionata adesione alle tesi del Marx della ‘Questione ebraica’ quello più lontano dalla liberaldemocrazia—e ,si rilevi incidentalmente, più vicino agli anti-intellettualisti e agli antiuniversalisti de Maistre e de Bonald, <dopotutto non vissuti invano>–
<Il vecchio Marx aveva visto giusto, e in modo penetrante, quando scrutava i segni del tempo alle origini della modernità politica dell’eguale cittadinanza, e nella ‘Questione ebraica’ metteva a fuoco la contraddizione fra l’uguaglianza politica e il variegato spazio delle diseguaglianze economiche e sociali e denominava la comunità della eguale cittadinanza come la ‘comunità illusoria’. La tensione tra l’eguale status di cittadinanza e le disuguaglianze in termini di titoli e accesso a risorse economiche, sociali, culturali è semplicemente all’origine della questione sociale, vecchia e nuova. Diritti eguali, ma redditi e ricchezza disuguali, come si dice>
Occorre proprio far rilevare che la libertà, assicurata dall’eguale cittadinanza, non risolse certo la ‘questione sociale’ (in quale ‘angolo del globo’è avvenuto?) ma diede ai contadini e agli operai il diritto di voto ovvero il biglietto d’ingresso nell’arena politica, dove avrebbero potuto unire le loro debolezze, <far diventare>,per citare gli antichi, <il numero una forza>, organizzare partiti, sindacati, cooperative? Si capisce come Marx e i socialisti e i montagnardi suoi contemporanei potessero vedere nella scheda elettorale un’arma spuntata nelle mani dei proletari, alla luce della sua incapacità di convertire l’eguaglianza politica in eguaglianza sociale: si comprende assai meno come una sinistra democratica e riformista possa ancor oggi ritenere esemplare un’analisi tanto estranea, sotto il profilo storico e politologico, alla ‘political culture’ dell’Occidente..
Se non si assume, almeno in parte, come destino < la contraddizione fra l’uguaglianza politica e il variegato spazio delle diseguaglianze economiche e sociali>, si rischia di individuarne la causa esclusivamente nell’egoismo dei ‘beati possidentes’, nella superstizione delle vecchie agenzie spirituali, nell’ancor viva e vegeta progenie di de Maistre e de Bonald—cui Gramsci avrebbe aggiunto i nipotini di Padre Bresciani—dimenticando che, per assicurare a tutti condizioni di vita dignitose, è necessario innovare e produrre e che la questione sociale non si risolve denunciando le presunte <terribili conseguenze economiche, sociali e culturali del mercatismo>, sulle quali Angelo Panebianco e Piero Ostellino, sulle pagine del ‘Corriere della Sera’, hanno scritto editoriali tanto ragionevoli quanto inutili (dal momento che ormai il senso comune dominante è tornato ad essere quella antiliberale di sempre).
Sì, dice bene Veca, le risorse (proprietà, sapere, prestanza fisica) sono inegualmente distribuite ma il rimedio non sta nel creare artificialmente altre aree di ineguaglianza—v. il potere enorme dell’assessore e del ministro dal quale dipendono il finanziamento di una ‘iniziativa del basso’—che si aggiungono alle molte che la natura e la storia ci hanno lasciato in sorte ma, per parlare come i nostri filosofi analitici, nell’<implementare> la libertà, nel far sì che tutti possano organizzarsi per entrare sia nel mercato dell’economia sia in quello della politica, senza dover chiedere nulla agli altri e allo Stato (o, tutt’al più, chiedendo a quest’ultimo esenzioni temporanee ma non sostegni diretti). <L’Associazione>–la parola magica, cara tanto al democratico Mazzini (che,di formazione giacobina, proprio sul tema dell’ associazione prende le sue maggiori distanze da Rousseau e da Robespierre) quanto al liberale Tocqueville–potrebbe assicurare un minimo di benessere sotto le ali della Libertà. Ma oggi, in Italia ,per fare un esempio terra terra, sarebbe possibile a tre/quattro giovani intenzionati ad aprire un negozio o a intraprendere un’attività artigianale di andare avanti per la loro strada senza dover fare i conti con pastoie burocratiche di ogni tipo (per non dire nulla dei costi dei registri contabili, degli onorari ai commercialisti etc.)?
Non si può non essere d’accordo con Veca, quando rileva che <i volti dell’oppressione> sono tanti ma è proprio questo è il motivo per cui la nuova sintesi liberalsocialista diventa non poco problematica anche se parla con l’accento angloamericano del M. I. T o di Princeton.