La trappola del debito e l’Europa matrigna
09 Aprile 2020
La pandemia mette a dura prova sia l’europeismo sia il sovranismo. Con le sue conseguenze economiche la prova, da dura, si farà durissima. E in Italia più che altrove.
Il Coronavirus ha posto sul tavolo con violenza dirompente la questione della controllabilità del mondo. La risposta a questa sfida passa in ogni dove per un’opera di segmentazione politica e in una certa misura pure economica del pianeta: aree geografiche delimitate rafforzano la propria capacità di autogoverno, consolidano i propri confini, cercano di rendersi il più possibile autonome almeno in alcuni ambiti strategici. Nel contesto europeo quest’opera di segmentazione rende ancora più pressante il problema del rapporto fra la dimensione comunitaria e quella nazionale. Nel momento in cui sono costretto a una chiusura relativa, insomma, dovrò decidere dove chiudermi, se nell’appartamento o nel condominio. La tragedia particolare dell’Italia consiste nel fatto che sia l’appartamento sia il condominio sono rifugi assai poco soddisfacenti.
L’Italia, com’è noto, è un Paese a sovranità limitata non per colpa della perfida Bruxelles, ma perché la trappola di un debito pubblico ingestibile la mette alla mercé dei mercati finanziari internazionali. Si dibatte in questa trappola da almeno un trentennio senza saper trovare le risorse per uscirne, né economiche a motivo della bassa crescita, né politiche per il mediocre funzionamento della vita pubblica. Col passare del tempo quelle risorse sono venute scemando, poi, e la trappola si è fatta sempre più letale. Infine, questa situazione ha creato un’evidente asimmetria nell’Unione, perché la tagliola è specificamente italiana, anche se vale in misura minore pure per altri Paesi della periferia d’Europa, e valeva in misura maggiore per la povera Grecia che ne è stata stritolata.
Potremmo discutere a lungo sulle origini della trappola e le responsabilità di chi le ha consentito di chiudersi intorno alla Penisola. Su quanto essa stessa e l’impossibilità di uscirne dipendano dalle decisioni di partecipare al processo di integrazione europea – e in particolare a quello d’integrazione monetaria – in certi momenti e a certe condizioni. Potremmo discutere a lungo del rapporto che le classi dirigenti italiane hanno con la loro patria. E del calcolo cinico di una parte di quelle élite, infine, convinte che alla fine la Germania pur di non veder fallire il progetto europeo si sarebbe fatta carico del debito italiano. Sono discussioni di straordinario interesse, ma hanno un valore soprattutto storico. Il nostro problema oggi è come uscire dalla maledetta trappola.
Gli altri paesi europei, con ogni evidenza, non sono disposti a tirarcene fuori. Dall’appartenenza all’Unione e all’euro l’Italia ha tratto molti vantaggi – basti pensare, per non prendere che un esempio, ai bassi tassi d’interesse sul debito pubblico. E nelle emergenze le istituzioni europee alla fine si sono mosse, benché in ritardo e con scarso entusiasmo, com’è avvenuto nell’estate del 2012 col «whatever it takes» di Mario Draghi. Questo ci ha permesso di sopravvivere nella trappola. Ma non di uscirne. La scommessa cinica di chi pensava che alla fine la Germania avrebbe pagato si è rivelata drammaticamente sbagliata.
Il sovranismo italiano è nato e cresciuto in reazione alla sensazione d’intrappolamento da un lato e al diffondersi della convinzione che con l’Europa non se ne sarebbe usciti dall’altro. Lo mostra bene la sua cronologia: è venuto montando a partire dal 2012, quando è diventato evidente che l’aver di fatto commissariato il Paese accettando il governo euro-tecnocratico di Monti era servito sì a superare l’emergenza, ma non a sciogliere i nodi strutturali che avviluppavano la Penisola. È un errore storico allora – e di rado innocente, per altro – affermare che se l’Europa non aiuta l’Italia, la colpa è dei sovranisti. È vero il contrario, i sovranisti esistono perché l’Europa non ha aiutato l’Italia quanto l’Italia, a torto o a ragione, avrebbe voluto. Dalla trappola, del resto, non si è usciti nemmeno coi governi non sovranisti.
Il sovranismo rappresenta in parte una risposta emotiva, una sorta di soprassalto patriottico di fronte all’Europa matrigna. Ma in parte è anche un ricatto, il tentativo di guadagnare forza negoziale minacciando di far naufragare il progetto europeo. Queste premesse ci consentono di capirne meglio le insanabili contraddizioni strutturali. Per uscire dalla trappola del debito e recuperare sovranità senza farsi troppo male, l’Italia ha bisogno dell’Europa. I sovranisti ne reclamano allora l’aiuto nel momento stesso in cui l’attaccano per la sua insufficienza, sperando al contempo che quell’aiuto non arrivi mai, perché se arrivasse davvero essi non avrebbero più ragion d’essere. Forze politiche fondate sull’interesse nazionale, così, sono obbligare a scommettere sulla catastrofe. Basti pensare del resto alle continue oscillazioni di Salvini, che passa ciclicamente dall’invocazione a Draghi alla critica più o meno esplicita dell’euro. O ancora, all’asse che i sovranisti nostrani devono costruire con quelli d’oltralpe, fermi sostenitori del principio secondo cui del debito italiano devono farsi carico gli italiani, punto e basta.
Le contraddizioni del sovranismo non modificano tuttavia il dato di fondo: finora la speranza italiana nella liberazione europea dalla trappola è andata delusa. Ci sono ovviamente al nord dei partiti europeisti convinti che l’Unione debba essere più solidale – si pensi da ultimo ai verdi tedeschi. Ma non è un caso che siano quasi sempre forze di opposizione: le maggioranze lassù paiono essere altrove. Quelle maggioranze hanno solide ragioni, beninteso: non sta scritto da nessuna parte che i tedeschi siano tenuti a ripagare, o anche solo garantire, i debiti italiani. Pesano poi gli stereotipi nazionali, che in Europa restano quanto mai robusti. Gli europei del nord non capiscono gli europei del sud, li stimano poco e se ne fidano di meno. Tre anni fa un ministro olandese, Jeroen Dijsselbloem, fece scandalo perché disse che i paesi mediterranei piangevano miseria dopo essersi mangiati il patrimonio in donne e alcol. Sarebbe da capire fino a che punto lo scandalo sia dipeso dalla convinzione che l’incauto ministro avesse detto una sciocchezza gratuita e offensiva, e quanto dalla sensazione che stesse invece squarciando un velo d’ipocrisia che andava preservato. Se un politico dice qualcosa, del resto, è perché spera così di mettersi in sintonia coi propri elettori.
Il nocciolo della questione è che, se lo si osserva da un punto di vista politico e culturale, il processo d’integrazione europea appare, se non fallito, quanto meno profondamente arenato. Sono decenni ormai che ha perduto l’anima. I suoi promotori, spinti da un ottimismo superficiale e spensierato, hanno creduto che argomentazioni meramente utilitaristiche bastassero a sconfiggere le durezze della realtà e della storia.
L’immenso patrimonio di cultura e identità del quale l’Europa dispone è diventato così non una risorsa da salvaguardare e utilizzare per costruire una comunità multinazionale salda e vitale, ma un ostacolo da superare facendo leva sui vantaggi materiali – la crescita economica, il benessere, il consumo – che il mercato e la moneta unica avrebbero arrecato. Senonché, gli argomenti utilitaristici hanno un brutto difetto: quando l’utilità viene meno, o peggio ancora si converte in disutilità, nella realtà o nelle percezioni, diventano inutili se non controproducenti. E a quel punto non c’è più alcun piano B.
Le reazioni suscitate dalle recenti vicende ungheresi mostrano bene a che punto sia giunto l’oblio europeo del passato. La salvaguardia del pluralismo democratico in Ungheria è un problema molto serio e non dev’essere sottovalutato. Però è mai possibile che nell’affrontarlo nessuno in Europa, in nessuna sede, abbia saputo tener conto delle più elementari nozioni di storia e geografia? È mai possibile che nessuno si sia chiesto se in un piccolo paese collocato al centro del continente, privo di sbocco al mare, abituato da secoli a difendersi dai tedeschi a ovest, dai russi a est e dai turchi a sud, sfornito di una significativa tradizione di governo rappresentativo e reduce da mezzo secolo di comunismo, la questione della democrazia liberale possa davvero porsi allo stesso modo in cui si pone – per dire – in Svezia o in Olanda? E se proprio non si vuol guardare alla storia o alla geografia, poi, non si potrebbe almeno tener presente che in Ungheria il principale partito di opposizione è alla destra di Orbán? Qualcosa vorrà pur dire.
La pandemia apre ora tre strade all’Italia e all’Europa. La prima è quella europeista: la crisi sarà l’occasione per un salto di qualità dell’Unione e dell’eurozona, e l’Italia avrà la prova concreta di come nel continente ci sia chi vuole davvero aiutarla a uscire dalla trappola. La debolezza politica e culturale della costruzione europea non ne sarebbe automaticamente curata, ma il passo in avanti sarebbe significativo.
Se il Coronavirus fosse arrivato prima della Grande Recessione forse questa via avrebbe avuto maggiori probabilità di essere imboccata: l’ultimo decennio ha logorato in profondità la solidarietà continentale e restituito centralità agli stati nazione, e in queste circostanze la crisi sanitaria rischia di accelerare, piuttosto che frenare, i processi di divergenza in corso. Nel momento in cui la pandemia si è presentata in Italia, inoltre, le istituzioni comunitarie e gli altri Paesi dell’Unione hanno dato prova di una tale mancanza di empatia da generare nella Penisola una vera e propria catastrofe simbolica. Da allora hanno affannosamente cercato di recuperare, e bisognerà poi vedere se questa catastrofe, passata l’emozione del momento, lascerà strascichi di lungo periodo. L’impressione, tuttavia, è che l’Europa faticherà a risalire la china.
La seconda strada è la vera via sovranista: restare nella trappola diventa impossibile, uscirne con l’Europa non si può, quindi tocca sbrigarsela da soli. È l’«Italexit», o perseguita per iniziativa italiana – che malgrado tutto resta assai improbabile –, oppure resa necessaria dalle circostanze esterne. Non credo che nessuno sappia con precisione quale ne sarebbe il prezzo, ma dubito che qualcuno pensi davvero che possa non essere altissimo.
La terza strada è a mio avviso la peggiore, ma è anche quella i cui contorni si stanno disegnando in questi giorni con sempre maggiore chiarezza e che la storia del processo d’integrazione europea ci insegna essere la più probabile, almeno nel breve periodo: un altro compromesso utile ad affrontare l’emergenza ma non a sciogliere i nodi strutturali. Gli europeisti potrebbero così gridare giulivi che il bicchiere è mezzo pieno, i sovranisti, arcigni, che è mezzo vuoto, mobilitando gli uni e gli altri le rispettive, inesauribili macchine sofistiche. L’inadeguatezza delle due soluzioni diventerebbe ancora più evidente agli occhi degli italiani, senza però che nessuna riesca a prevalere sull’altra. L’Italia rimarrebbe nella sua trappola, viva ma sempre più debole, e con chance di uscirne ormai azzerate. E l’Europa in mezzo al guado che è diventato ormai la sua dimora. Fino alla prossima crisi.
*Parte di questo articolo è stato pubblicato in forma di editoriale su “La Stampa” del 6 aprile u.s.