La Turchia avverte Assad: se ci sarà esodo di profughi, pronti a intervenire

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La Turchia avverte Assad: se ci sarà esodo di profughi, pronti a intervenire

08 Ottobre 2011

“Recep va alla battaglia”, per il Medio Oriente. Non si tratta del titolo prosaico a un poema tardo cavalleresco, riadattato alle lande islamiche di Turchia, bensì appropriato titolo di quella che sempre più è la postura militare e politica di Recep Tayyip Erdogan, l’attuale primo ministro turco e leader del movimento politico "Giustizia e Sviluppo".

Le manovre militari che il governo di Ankara ha messo in piedi nella provincia di Hatay al confine con la Siria – e che vedono il dispiegamento della 37sima brigata di fanteria meccanizzata e l’impiego di 730 truppe di riservisti –  è un chiaro segnale di come Erdogan voglia andare alla resa dei conti con Bashar al-Assad, il dittatore siriano che da mesi autorizza una dura repressione contro il suo stesso popolo, sotto lo sguardo della comunità internazionale che a differenza dal caso libico, si è molto indignata ma non ha combinato un granché. 

Le manovre sono state annunciate il giorno dopo la visita in Israele del neo-Segretario alla Difesa statunitense, Leon Panetta, durante la quale l’ex-direttore della CIA ha sottolineato l’importanza di una normalizzazione delle relazioni israelo-turche per affrontare le minacce rappresentate dalla Siria, dall’Iran e da Hezbollah.

Quattro giorni fa i governi di Russia e Cina hanno posto il proprio veto in Consiglio di Sicurezza Onu alla risoluzione europea – patrocinata da Francia, Germania, Regno Unito e Portogallo –  contro la Siria di Assad.

A tale veto Erdogan ha risposto tre giorni fa dal Sud Africa dando il senso di quale sia la postura (piuttosto assertiva) della Turchia sulla crisi siriana: “Il mancato raggiungimento di un consenso in Consiglio di Sicurezza per delle sanzioni, non impedirà alla Turchia di procedere autonomamente con proprie sanzioni contro la  Siria”.

La vicinanza di tali esercitazioni al confine turco-siriano è un chiaro messaggio per il regime di Assad, accusato di uccidere civili nella repressione in corso nel suo paese. Secondo le stime delle Nazioni Unite, sinora Damasco avrebbe provocato la morte di 2.900 civili.

L’altro ieri il ministro degli esteri turco, Davutoğlu, ha dichiarato in televisione che se la Turchia fosse chiamata a gestire un massiccio esodo di profughi sul proprio territorio dalla Siria (come accadde quando Saddam Hussein si mise a massacrare i curdi e il governo turco dovette gestire 500.000 profughi alle sue frontiere), Ankara potrebbe intervenire militarmente sul territorio siriano.

Il ministro degli esteri turco, l’inventore della formula del ‘neo-ottomanesimo’, ha anche affermato che Assad è chiamato a operare delle riforme e che se non lo farà, l’unica via sarà quella di farsi da parte.

Tre giorni fa l’esercito siriano ha attaccato dei villaggi prossimi al confine turco e il rischio che l’esercito di Damasco finisca col ‘entrare in collisione’ con quello turco è più che una remota possibilità.

Ciò è ancora più probabile in una fase in cui il dittatore siriano, Bashar al-Assad si sente sotto assedio diplomatico. Un assedio che sta spingendo Damasco a commettere il fatale errore di ogni dittatura in difficoltà: la guerra.

A conferma di ciò, basti citare le parole bellicose attribuite al governo siriano (non ufficiali ma largamente riportate dalla stampa internazionale) il quale avrebbe minacciato di essere pronto ad attaccare Tel Aviv, in concerto con Hamas e Hezbollah (e immaginiamo con l’aiuto dell’Iran che è l’ultimo vero alleato di Damasco) se la Siria dovesse attaccata.

Lo stesso governo turco è stato accusato dal regime siriano di smerciare armi ai protestanti e di foraggiare in generale le rivolte.

Quel che è certo comunque è che la Turchia detiene ormai le chiavi di tanta parte della regione  mediorientale, una politica minacciata solamente dal regime degli ayatollah. Basta guardare agli ultimi dieci mesi. Dallo scoppio delle rivolte nel mondo arabo, la Turchia ha messo più di un piede in Libia. Si appresta a diventare centrale nella soluzione (militare?) della crisi siriana.

Nel viaggio mediorientale di qualche settimana fa di Erdogan, il primo ministro turco stato accolto in Egitto come una specie di eroe politico. E ciò accade con il bene placido dei sauditi, rinfrancati dal protagonismo turco in funzione anti-Iran, soprattutto adesso che la Turchia si appresta a concedere agli americani l’installazione di un sistema anti-missilistico proprio in contenimento delle ambizioni politico-militari del regime degli ayatollah.

E poi c’è Israele: la Turchia sta mettendo in discussione la superiorità militare israeliana nella regione (sempre durante il suo intervento sudafricano, Erdogan ha accusato Israele di essere “un rischio per la pace mediorientale perché in possesso di armi nucleari”).

Al di là delle tensioni su questo o quel capitolo – Mavi Marmara o Gaza – lo stato pessimo delle relazioni israelo- turche è in parte da ricondurre alla sfida regionale di Erdogan: cuori e menti arabe con un po’ di retorica anti-israeliana e un chiaro messaggio al governo di Gerusalemme: nella regione Israele non è più da sola e la Turchia conta di più politicamente  (soprattutto per questa amministrazione statunitense).