La vera faccia del precariato non è quella raccontata al cinema
05 Maggio 2008
Volendo adeguarmi per alcune ore alle nuove ideologie del
lavoro, la sera del 1° Maggio ho deciso di festeggiare la ricorrenza andando a
vedere, in un cinema sotto casa, il film di Paolo Virzì “Tutta la vita
davanti“.
Se ancora avessi la forza morale di scandalizzarmi credo che,
all’uscita, l’avrei fatto. In verità mi sono soltanto intristito un poco più di
quando mi capita di occuparmi – da ex – delle cose della sinistra. La storia è
breve da raccontare. Una ragazza siciliana, di nome Marta, si laurea a Roma col
massimo dei voti discutendo una brillante tesi di filosofia. Il suo compagno è
un matematico che in Italia è costretto a fare il dog sitter, mentre
un’Università americana gli offre un contratto da 50mila dollari l’anno (primo
messaggio: i nostri giovani sono costretti ad andare all’estero perché da noi
trovano solo dei lavoretti precari).
Anche Marta non riesce a trovare un lavoro
adeguato, diversamente da tanti suoi colleghi “filosofi” che si
rassegnano alle logiche del sistema e si mettono a fare – ben remunerati – gli
sceneggiatori del “Grande Fratello” o i cronisti di qualche discutibile
pubblicazione.
Insomma, la protagonista finisce in un call center di una
multinazionale (il referente è impersonato da Massimo Ghini) che vende una
specie di robot tuttofare nei lavori domestici. Il personale è gestito da una
singolare manager interpretata da una splendida e borgatara Sabrina
Ferilli che cerca di motivare le
telefoniste con tecniche particolari sostanzialmente caserecce. Il lavoro è
organizzato nel seguente modo: si fanno telefonate a persone segnalate
dall’organizzazione (le segnalazioni sono il valore aggiunto dell’azienda), con
l’obiettivo di ottenere un appuntamento. A quel punto entrano in scena i
presentatori dell’apparecchio che ne spiegano il funzionamento e cercano di vendere il prodotto.
Tutti sono
incentivati: alla fine del mese viene premiata l’operatrice che ha ottenuto più
appuntamenti (ad essa viene rifilato il solito robot), vengono licenziate
quelle che hanno avuto i peggiori rendimenti; lo stesso trattamento è riservato
agli operatori a domicilio, i peggiori dei quali (con riferimento alle vendite)
sono sottoposti ad una specie di gogna da parte degli stessi colleghi.
Per
inciso, tali operatori che vanno nelle case della gente al dunque rubano la
pensione alle vecchie signore. Marta si fa apprezzare per il suo lavoro
suscitando l’invidia delle colleghe. Nel medesimo tempo la ragazza entra in
contatto con un sindacalista (ovviamente del Nidil-Cgil), il quale non ci fa
una gran figura, in quanto il massimo che riesce a fare è quello di mettere in
piedi uno spettacolo parodistico sui call center a cui partecipa tutto
l’establishment culturale romano che pronuncia la parola “precariato”
ogni tre, pur riscuotendo ben “tre paghe per il lesso”.
La sola eroina
positiva è la madre di Marta, insegnante di greco e latino (la sinistra ha
riscoperto gli studi classici), malata di cancro, lettrice dell’Unità e
fumatrice di spinelli. Ci fermiamo a questo punto senza raccontare la tragica
fine del film, il cui messaggio è chiaro: oggi è questo il lavoro in Italia.
E
i call center non sono un modo di organizzare un progetto di vendita, di
offerta di servizi, di contatto con la clientela o l’utenza. Nulla di tutto
questo: sono il luogo dello sfruttamento del lavoro e, persino, dello
svuotamento dell’anima di giovani che avrebbero il diritto di fare i filosofi e
di coltivare così l’intelletto.
Eppure chi ha avuto una vita lunga come la mia
ha l’impressione di un dèja vu. Quando iniziò – nella prima metà del
secolo scorso – la diffusione del telefono (le linee non erano automatizzate)
c’erano tanti centralinisti e centraliniste che lavoravano su turni organizzati
per l’intera giornata, infilando decine di volte in un minuto lo spinotto nella
linea. E le vendite? Ricordo decine di
persone che andavano a suonare alla porta proponendo l’acquisto di
enciclopedie, di polizze vita o di quant’altro.
Poi, una volta stipulato il
contratto, passava mensilmente un esattore a riscuotere la rata e a consegnare
la ricevuta. E che cosa dire dei rappresentanti di commercio e dei venditori e
piazzisti? Erano pagati a provvigione.
Entravano nei bar, nei negozi offrendo la loro merce. E quando raggiungevano un
certo numero di clienti le ditte “tagliavano” loro la zona, ovvero
riducevano il territorio sul quale avevano il mandato di rappresentanza,
costringendoli così a cercare altri clienti per non aver dimezzato il reddito.
Allora, il cinema – ammesso che lo facesse
– si occupava di questi casi senza farne la caricatura.