La vera gogna se la meritano i killer della stampa
17 Luglio 2011
Il suo avvocato, il battagliero Filippo Dinacci, ha protestato più volte contro quelle che definisce le implacabili violazioni del segreto istruttorio. Inutilmente. «Fin dall’inizio» sostiene Dinacci «i problemi sono stati due». Primo problema: «Non è pensabile che a partire dall’emersione dell’inchiesta, per oltre sei mesi, un indagato sia apparso sui quotidiani praticamente tutti i giorni, e quasi sempre per questioni che non hanno alcuna rilevanza penale. Non è ammissibile». Secondo problema: gli interrogatori dell’indagato sbattuti in prima pagina. Lamenta Dinacci: «Con il mio collega, l’avvocato Giovanni Dean, abbiamo seguito due interrogatori del nostro cliente, ma non ne abbiamo mai chiesto una copia». Il perché di questa scelta? Una giurisprudenza ormai sconfinata sostiene che un atto giudiziario anche coperto da segreto diventa pubblico (e quindi pubblicabile) nel momento stesso in cui passa per le mani di un difensore; quindi, se è vero che i due verbali erano custoditi esclusivamente dalla procura, non ne sarebbe dovuta uscire nemmeno una virgola. «Invece il primo interrogatorio lo abbiamo letto per intero su un quotidiano» sbuffa Dinacci «e subito dopo il secondo interrogatorio abbiamo visto un lancio d’agenzia nel quale venivano menzionate circostanze e soprattutto nominativi che non dovevano essere pubblicati».
L’avvocato Dinacci ispira umana simpatia non fosse altro che per l’immane sproporzione tra l’armamentario legale a sua disposizione e quello, immensamente più potente, nelle mani dell’accusa. Del resto, difendere Guido Bertolaso, fino al novembre 2010 capo della Protezione civile italiana, non dev’essere stato per nulla facile. E non solamente in tribunale, dal punto di vista tecnico. Contro il personaggio che da anni gli italiani erano abituati a conoscere come l’infaticabile ed efficientissimo direttore dei soccorritori, qualunque fosse l’emergenza che di volta in volta si presentava, l’esposizione mediatico-giudiziaria ha operato con una violenza inaudita. A pensare male, dicono, si fa peccato: eppure viene il sospetto che sia stata proprio l’immagine eccezionalmente positiva creata nel tempo dal sottosegretario alla Protezione civile a scatenare la nemesi di una devastazione scientifica, operata all’improvviso contro di lui: una vendetta sotto forma di un vero e continuo bombardamento a tappeto. Forse perché l’obiettivo, per essere centrato in pieno (e soprattutto per essere abbattuto), lo richiedeva. Il 10 febbraio 2010, di prima mattina, esce la notizia che Bertolaso è indagato dalla procura di Firenze e che è accusato di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per la riunione internazionale dei capi di Stato del G8, programmato nel 2009 sull’isola della Maddalena e poi velocemente spostato dalla Sardegna all’Aquila, terremotata il 6 aprile di quell’anno. L’inchiesta è corredata da alcuni arresti importanti, primo fra tutti quello di Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, cioè la massima autorità statale nell’assegnazione degli appalti. Balducci era stato anche responsabile dei contratti per i lavori alla Maddalena, ma nel giugno 2008 lo stesso Bertolaso lo aveva fatto sostituire quando si era scoperto che i costi delle opere erano lievitati da 290 a 600 milioni di euro.
In televisione il nuovo scandalo supera per attenzione qualunque altro avvenimento della giornata. Nelle cronache, tutto il resto passa in secondo piano, dalle polemiche sulla nuova legge in materia di donazione degli organi a quelle sullo stop ai talk-show politici deciso alla Rai: in ogni telegiornale il volto pallido e contratto di Bertolaso campeggia sul golf blu con le mostrine tricolori che è da sempre la sua riconoscibilissima divisa. Ma la potenza di fuoco scatenata nella vicenda si misura ancora meglio l’indomani, quando escono i quotidiani. La ‘Repubblica’ dedica a Bertolaso sette pagine intere, più un’abbondante metà della prima; il ‘Corriere della Sera’, dopo il titolo a sette colonne in prima (Ecco tutte le accuse a Bertolaso: nelle carte appalti, donne e soldi), si «limita» a quattro pagine di cronache, ma i toni implacabilmente accusatori sono gli stessi. Nei titoli e nei sommari rimbomba una sequenza di espressioni capaci di atterrare chiunque: «corruzione», «appalti ad amici e parenti», «tangenti», «donne e denaro in cambio di favori». È un mare in tempesta. E al centro delle onde, sballottato su una barchetta di carta di giornale, c’è lui: Bertolaso.Quell’11 febbraio di tregenda Sergio Rizzo, sul ‘Corriere’, scrive che «la sua Protezione civile, caso forse unico nel mondo occidentale, ha prerogative talmente vaste da rappresentare ormai un potere nel potere. Sempre più ramificato anche nelle profondità di burocrazia e apparati pubblici». Il tono, comune ai grandi quotidiani, mescola indignazione e grande attesa per gli sviluppi dell’inchiesta. Sullo sfondo traspare la recentissima polemica politica sull’istituzione di una nuova società, la Protezione civile spa, che nei programmi governativi dovrebbe diventare la testa di ponte dell’intervento pubblico nella gestione delle emergenze, con ampie deroghe rispetto ai tradizionali vincoli burocratici. Sempre l’11 febbraio 2010, Alberto Statera sostiene sulla ‘Repubblica’ che con l’affiorare dello scandalo si scopre «uno scenario largamente annunciato, un’Appaltopoli che in nome dell’emergenza non ha l’eguale nella storia della Repubblica, neanche in quella della Prima, quando almeno i potentati del mattone si riunivano in una cupola per spartirsi gli appalti». E subito il commentatore la butta in politica: «Nel Paese di B&B, la perfetta coppia Berlusconi & Bertolaso, tutto è ormai emergenza: dal quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino, celebrato in provincia di Lecce con ordinanza emergenziale, fino al congresso eucaristico nazionale». Insomma, si sta già oliando la gogna. Il giorno stesso in cui scoppia il caso Bertolaso, gli italiani entrano in contatto anche con due espressioni destinate a invadere il lessico giornalistico nei mesi a venire. La prima ha un sapore antico, derivato direttamente dalle purghe maoiste degli anni Settanta: «la cricca».
Esattamente come nella Cina Popolare il termine veniva usato per individuare e isolare organizzazioni di potere contrarie all’interesse del partito o dello Stato (dalla «Cricca dei quattro» alla «Cricca del Dalai Lama»), nel glossario riformato la parola descrive con disprezzo la presunta associazione a delinquere tra i protagonisti del nuovo scandalo. L’altra espressione non nasce da un retaggio del passato, ma viene coniata direttamente dagli inquirenti fiorentini e avrà ancora maggiore fortuna mediatica: è il «sistema gelatinoso». Sostantivo e aggettivo descrivono l’insieme dei rapporti indebiti e criminali messi in atto dai soggetti coinvolti nello scandalo: secondo l’accusa, una serie di alti funzionari pubblici corrotti e d’imprenditori spregiudicati vivrebbero di scambi di piaceri, di favori reciproci. Non soltanto appalti e soldi, quindi, né solo volgari mazzette. Ma anche assunzioni di parenti, orologi lussuosi e telefonini in omaggio, viaggi in aereo, casse di champagne, ristrutturazioni gratuite di case, affitti pagati. E perfino sesso prezzolato per compiacere chi gestisce i milioni distribuiti con i lavori pubblici. L’ultimo capitolo del «sistema gelatinoso», che è anche il più pruriginoso, è inevitabilmente quello sul quale più si accendono le attenzioni dei giornalisti. Del resto, proprio su questo punto l’ordinanza di custodia cautelare, recapitata a Bertolaso come ai comprimari finiti nell’inchiesta (e contemporaneamente ‘planata’ sulle pagine di tutti i quotidiani), non lesina particolari. Al centro dell’attenzione degli inquirenti si colloca il Salaria Sport Village, un elegante centro sportivo romano di cui è titolare uno dei costruttori arrestati: Diego Anemone. È da qui che l’imprenditore, secondo le carte della procura, gestirebbe non solo i suoi affari ma anche un giro di donnine allegre, molto apprezzate. Carlo Bonini, sulla ‘Repubblica’ dell’11 gennaio, ne scrive con questi termini: «È certo che Bertolaso goda dei favori sessuali messi a disposizione da Anemone. Sono favori sessuali di qualità perché, come si ascolta in un’intercettazione telefonica, lui […] non manda ‘stelline del cazzo’ impresentabili tra marmi e salotti di lusso, ma solo professioniste di un certo livello. Anche Bertolaso lo sa. Il 21 novembre 2008 è al telefono con Simone Rossetti (il lenone di Anemone) e ordina ‘il solito’, cioè ‘quella brava’». Negli atti giudiziari, racconta Bonini, si cita un episodio che risale al 14 dicembre 2008, quando nel Salaria Sport Village «viene fatta giungere una donna di nazionalità brasiliana di nome Monica, con ogni verosimiglianza una prostituta gestita da tale Regina, che intratterrà Bertolaso». Gli inquirenti sottolineano che il capo della Protezione civile «si è recato più volte presso il centro, usufruendo anche delle prestazioni di tale Francesca» almeno dodici volte tra il 2008 e il 2009, come annotano nelle loro informative i Carabinieri. Insomma: Francesca come Monica, come Regina, sarebbero soltanto prostitute arruolate per compiacere e per «comprare» il capo della protezione civile. Per dimostrarlo non mancano le intercettazioni, ovviamente diffuse in tempo reale su tutti i quotidiani, con un Bertolaso che al telefono impiega termini ambigui, ma inflessibilmente utilizzati come altrettanti capi d’accusa contro di lui: «Sono atterrato in questo istante dagli Stati Uniti. Se oggi pomeriggio Francesca potesse…io verrei volentieri…per una ripassata».
La «ripassata» accende le fantasie dei cronisti. Ovviamente prevale la lettura sessuale del termine. Si dibatte per giorni se la parola sia stata riportata correttamente nei verbali. Il 12 febbraio il ‘Corriere’ dedica al dilemma un’abbondante metà della pagina 2, con un titolo che è tutto un programma: La ripassata? No, avrà detto rilassata. Fabrizio Caccia intervista Luigi Sotis, presidente del Salaria Sport Village: «Sì, ho letto i giornali» dice. «Il dottor Bertolaso è venuto a farsi una ripassata qui da noi con Francesca… E allora? È nostro socio e noi ne siamo onorati. Ne avrà diritto, no?». Poi aggiunge: «Bertolaso avrà detto ‘rilassata’, non ‘ripassata’, e i magistrati hanno capito male. Non lo so, mi sembra tutto un misunderstanding, un grosso quivoco». Ma i massaggi e le massaggiatrici continuano a tenere banco per giorni. I giornali pubblicano intercettazioni obiettivamente ambigue. Come questa, doveMonica e Regina parlano al telefono dopo un incontro della prima con Bertolaso e ne discutono in brasiliano. Regina: «Allora, hai finito?». Monica: «No…sì, in questo momento». Regina: «Tutto ok?…ragazza? per l’amore di Dio…». Monica: «No, tutto sicuro…non fece niente…grazie a Dio…». Regina: «È andato tutto bene?». Monica: «Ho fatto un massaggio meraviglioso… lui ha visto le stelle». Anche su questo «vedere le stelle» s’innesca un pettegolezzo senza fine. I giornali, concordi, interpretano l’espressione nella maniera più negativa per l’indagato e più favorevole per l’accusa. Inutilmente la difesa di Bertolaso cerca di accreditare la tesi per cui anche durante un massaggio il paziente possa effettivamente «vedere le stelle», magari per il dolore di una contrattura sottoposta a fisioterapia. Anche in questo caso, la spiegazione che sui giornali viene data di quelle parole è soltanto quella sessuale. Cioè un orgasmo. Si scoprirà poi che Francesca non è una prostituta brasiliana, bensì una fisioterapista professionista quarantaduenne, di Roma, disperata per la calunnia e per l’involontaria e sgradevole pubblicità. Quanto a Monica, resterà avvolta nel mistero: il suo cognome non è mai stato rivelato dagli inquirenti, nemmeno al momento della richiesta del rinvio a giudizio. Non risultano sue dichiarazioni raccolte a verbale. Sul sesso in cambio degli appalti c’è chi fa analisi sociologica. La ‘Repubblica’ del 12 febbraio 2010 titola in prima pagina: Appalti e sesso, nuova bufera su Bertolaso. Sempre in prima Gad Lerner scrive un commento intitolato La donna tangente: «La donna tangente» annota «pare ormai assunta come merce di scambio ordinaria fra i puttanieri della nuova classe dirigente italiana». Puttanieri: non c’è ancora alcuna certezza giudiziaria, ma siamo già alle offese. Poco sotto, una vignetta di Altan irride direttamente Bertolaso: «In caso di emergenza» dice la procace donnina disegnata «pratico il coito di scambio». A pagina 2, il quotidiano insiste sul tema «sesso» e titola a piena pagina: Festa megagalattica per Bertolaso. E negli appalti spunta la mafia. Il sommario afferma che «nel sistema di spartizione degli appalti il sesso era una merce di scambio». Franca Selvatici scrive che nell’inchiesta sembra che alcune prostitute siano state impiegate come tangenti, e parla dei «retroscena da basso impero, nei quali sembra coinvolto anche Bertolaso». Nelle intercettazioni, scrive la giornalista, Anemone si prodigava per organizzare «una cosa megagalattica per lui». In più, come appare dalla titolazione, si accenna a presunte infiltrazioni mafiose negli appalti: ne parlerebbero al telefono due degli indagati «minori», intercettati, discutendo tra loro della partecipazione obbligata di nonmeglio precisate imprese campane. La pista mafiosa, nei mesi a venire, svanisce nel nulla. Resta, invece, il peso di quel titolo: «la festa megagalattica», che chiude il cerchio dopo gli ammiccamenti sul «vedere le stelle» e sulla «ripassata». Sulla ‘Repubblica’di quel 12 febbraio conclude l’opera una vignetta di Ellekappa. Nel disegno, due donne parlano tra loro. Una dice: «Sua emergenza Guido Bertolaso». L’altra risponde: «Il ripassatore finale». Il tema sessuale, inevitabilmente, appassiona. Il ‘Corriere’ del 14 febbraio 2010 pubblica a pagina 8 un articolo su nove colonne: Feste al club: trovata la ragazza brasiliana. Monica avrebbe ammesso la serata con Bertolaso. Scrive la giornalista Lavinia Di Gianvito: «I Carabinieri del Ros hanno rintracciato la escort e ne hanno registrato il racconto, sebbene ancora in modo informale.Monica, dunque, esiste ed è proprio brasiliana. Come Regina, di cui sarebbe amica. Di fronte agli investigatori la giovane avrebbe fatto alcune ammissioni e, in particolare, avrebbe confermato di aver trascorso una serata con il sottosegretario alla Protezione civile». L’avvocato Dinacci, alla fine dell’articolo, protesta: «Ricostruzioni fantasiose». In realtà, la terza presunta prostituta «offerta» a Bertolaso come mazzetta sessuale, e cioè Regina, è l’unica che viene individuata con certezza: si rivelerà per essere Regina Profeta, 46 anni. ComeMonica, anche lei è brasiliana, ma non è affatto una escort. Regina è l’organizzatrice delle serate danzanti che al Salaria Sport Village si tengono tutti i venerdì: «Macché prostitute» protesterà con forza la donna in qualche trafiletto di giornale, comunque del tutto marginale rispetto al profluvio di accuse. «Non cerco donne per nessuno, io!». Ma ormai è troppo tardi.
Nelle cronache, in tutte le cronache, le insinuazioni sulle «stelle» viste da Bertolaso, con la lettura ovviamente più negativa per l’indagato e per l’incolpevole massaggiatrice Francesca, o per Monica, diventano quasi un mantra e sono ormai incancellabili dalla memoria collettiva. Del resto, se la semantica delle intercettazioni fosse una scienza, sulle telefonate entrate nell’inchiesta contro l’ex capo della Protezione civile si potrebbe organizzare un corso universitario. Decine di conversazioni sono state analizzate, studiate, quasi sezionate come su un tavolo di anatomia. L’orecchio impudico degli investigatori e dei cronisti si è spinto ad attribuire una connotazione sessuale a molte delle frasi ascoltate. Nelle carte della procura, a un certo punto, due imprenditori coinvolti nello scandalo parlano di una serata organizzata per Bertolaso. E anche quel dialogo viene letto con la stessa lente accusatoria. A dice a B: «Senti, ma quante situazioni devo creare? Una… due?». Le «situazioni», è quasi inutile dirlo, nell’ammiccante traduzione fornita al lettore sono donne compiacenti, sicuramente escort messe a disposizione dagli imprenditori come prezzo della corruzione. B risponde: «Io penso due…lui si diverte…due!». A questo punto, A lancia un’ipotesi: «Tre?…che ne so!». B sbotta: «Eh la Madonna!». A, allora, ride divertito: «Va bene…a posto». E B si raccomanda: «Di qualità!». Ottenendo un serioso: Assolutamente». Non serve che Bertolaso e gli altri indagati si affannino a interpretare in modo diverso le frasi. A nulla serve dimostrare che la «situazione », di qualunque cosa si tratti, in realtà non s’è mai realizzata perché quella sera il capo della Protezione civile ha comunque avuto un altro impegno. Non basta nemmeno protestare che, con la scorta sempre presente, l’intimità richiesta per certe presunte «prestazioni» al Salaria Sport Village sarebbe stata impossibile. Basta l’ambiguità delle frasi. Basta una lettura malevola. Basta che l’accusa sia appena credibile, e diventa verità inoppugnabile. Siamo arrivati intanto a metà febbraio. Sono trascorsi pochi giorni dall’inizio dell’inchiesta. E su Bertolaso continua il massacro. Giorno dopo giorno, tutto nelle indagini gioca contro di lui, e soprattutto contro di lui. Ogni colpo si riverbera sul sottosegretario. Il fatto che Anemone abbia visto balzare il fatturato della sua azienda di costruzioni da 8 a 65 milioni di euro in soli quattro anni; ma anche il fatto che due costruttori, intercettati al telefono, ridano cinicamente parlando degli appalti in arrivo dopo il terremoto dell’Aquila; perfino che altri indagati, al solito telefono sotto controllo, parlino con un linguaggio sboccato. È sempre Bertolaso il primo responsabile. Di tutto. E mentre già il 14 febbraio 2010 la legge sulla Protezione civile spa si arena definitivamente in Parlamento, l’inchiesta continua a correre e soprattutto corrono le cronache giudiziarie. Ai primi di marzo esplode sui quotidiani un altro capitolo sessuale dello scandalo, ma questa volta ha al centro Angelo Balducci. Si scopre che l’alto funzionario dei Lavori pubblici, ancora rinchiuso in una cella del carcere di Perugia, è molto introdotto in Vaticano, tanto da avere ottenuto il titolo di «Gentiluomo di sua Santità».Ma si scopre soprattutto, grazie a un’informativa dei Carabinieri che il 2 marzo viene pubblicata in contemporanea dalla ‘Repubblica’ e dal ‘Corriere’, che «l’ingegner Balducci, per organizzare incontri occasionali di tipo sessuale, si avvale delle intermediazioni di due soggetti che si ritiene possano far parte di una rete organizzata, operante soprattutto nella capitale, di sfruttatori o comunque favoreggiatori della prostituzione maschile». Il nuovo scandalo nello scandalo non ha alcun rilievo, nell’inchiesta sugli appalti. E anche dal punto di vista strettamente penale ha un’importanza molto relativa: però lo spunto sessuale riesce ad accendere l’attenzione di tutti i quotidiani. Con effetti disastrosi per il rispetto della privacy, dell’intimità e dei diritti fondamentali di Balducci e di chiunque sia coinvolto. Per giorni e giorni si leggerà così dell’indagine parallela condotta per sfruttamento della prostituzione su un giovane nigeriano di nome Thomas, che vive a Roma e che nelle telefonate intercettate afferma di fare parte del coro di San Pietro. Secondo le cronache, è Thomas a offrire a Balducci le prestazioni di ragazzi, soprattutto stranieri, in cambio di soldi e di piccoli favori. Sui quotidiani cominciano a uscire brani d’intercettazioni imbarazzanti per Balducci: «Angelo, io non ti dico altro. È alto 2 metri per 97 chili, 33 anni, completamente attivo». Sul ‘Corriere’ del 3 marzo 2010 protesta inutilmente Franco Coppi, il penalista che assiste l’alto funzionario indagato: «È una vergogna» dichiara all’uscita dal carcere di Perugia, dove ha appena incontrato il suo assistito, ovviamente prostrato dal fatto «che vengano pubblicate sui giornali cose che non c’entrano nulla con l’inchiesta». Coppi trattiene a stento l’indignazione: «Siamo pronti alle azioni legali» dice. «Non si può dire qualsiasi cosa a ruota libera contro una persona soltanto perché si trova in carcere». Parole sacrosante, ma gettate al vento. Così, mentre nessun particolare scabroso viene risparmiato ai lettori, nemmeno sulle pratiche sessuali attribuite a Balducci, i cronisti si scatenano in una vera caccia al corista nigeriano. A scovarlo riesce il settimanale ‘Panorama’, che il 5 marzo pubblica l’intervista «Che c’entro io con la corruzione?» tenta di difendersi Thomas, disperato per la vergogna e perché nel frattempo è stato allontanato dal coro vaticano. E aggiunge: «Ma se mi hanno intercettato al telefono per tutti questi mesi, perché non ci sono le chiamate dove dico a Balducci che non volevo più procurargli uomini per i suoi incontri?». Già, dove sono quelle telefonate? Domanda ingenua: nel canovaccio delle indagini preliminari, malgrado il codice di procedura penale all’articolo 358 obblighi il pubblico ministero, e con lui la polizia giudiziaria, «a svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona indagata», non si troveranno mai prove di questo genere. Del resto, perfino la Corte di cassazione da anni ha gettato la spugna sull’evidente ipocrisia di questo comma, stabilendo che «l’obbligo non si traduce in un dovere generalizzato del pm di adeguarsi in ogni caso alle richieste d’indagini in tale direzione ». Come a dire: mani libere.
Intanto, distrutto dall’ultimo paragrafo sessuale dello scandalo, Balducci esce mestamente di scena: sui giornali, da questo momento, ogni difesa gli viene pregiudizialmente preclusa. Distrutto, aspetta soltanto il processo. Nel frattempo, l’inchiesta sugli appalti avanza. In quello stesso mese di marzo esce la notizia che Anemone, nei computer che gli sono stati sequestrati, conservava una lista di circa quattrocento nomi, dove sono elencati tutti i personaggi pubblici destinatari di (presunti) favori. Per settimane, per mesi, il ‘Corriere’, la ‘Repubblica’ e tutti i grandi giornali fanno a gara a pubblicare indiscrezioni sui vari «vip» della «lista Anemone», sulle case ottenute a prezzi di favore, sui mille altri benefici ricevuti in cambio di chissà cosa. È quasi una lista di proscrizione. Insinuazioni e verità si mescolano e precipitano su decine di teste, spesso coinvolte senza alcun vero motivo. Soltanto il 10 maggio 2010, quasi non si fosse scritto nulla per interi mesi, Giovanni Bianconi pubblica sul ‘Corriere’ un perplesso editoriale, dal titolo Cautele e dubbi. Ed ecco che cosa scrive Bianconi, in un soprassalto di garantismo: «Per capire se e quanto marcio c’è nel modo in cui sono stati aggiudicati gli appalti milionari, anche attraverso la presunta corruzione di cui sono accusati, sarebbe necessario fare chiarezza su ogni operazione. Anche la più apparentemente insignificante […]. Il rischio è che questo lavoro, che spetta in primo luogo agli inquirenti, venga avvelenato e reso più difficile dalla confusione tra ciò che ha (o potrà avere) una motivazione lecita, e ciò che invece non ce l’ha e non potrà averla. E che la trasparenza a cui sono tenuti i personaggi e gli organismi tirati in ballo a vario titolo venga offuscata da una nebulosa di situazioni molto diverse tra loro, dove tutto si confonde. Con il risultato di fare perdere credibilità alle istituzioni e a chi le rappresenta, in un’indistinta demonizzazione che alla fine potrebbe coinvolgere tutti e tutti affossare. O salvare. Sia chi ha davvero abusato del proprio ruolo o anche peggio, sia chi s’è comportato correttamente». Parole sacrosante, anche queste. Peccato che l’«indistinta demonizzazione » sia andata avanti anche troppo a lungo e ormai abbia coinvolto decine di persone. Ma il soprassalto di coscienza dura poco. L’inchiesta riprende e presto ha bisogno di alimentarsi. Si scopre, e la notizia viene amplificata sui giornali, che sotto la gestione di Bertolaso anche le assunzioni e le consulenze della Protezione civile sono lievitate. Già due mesi prima, il 27 marzo, la ‘Repubblica’ ha rivelato che il personale della Protezione civile è «triplicato in sei anni», con grandi slanci di nepotismo. Aveva scritto Paolo Berizzi: «Figli e nipoti di generali, colonnelli, magistrati della Corte dei conti e della Corte costituzionale, cardinali, prefetti, direttori generali del Tesoro (gli stessi che devono controllare le spese della Protezione civile), avvocati di Stato, 007 dei servizi segreti, dirigenti e segretari generali della presidenza del Consiglio dei ministri, ex capi dei Vigili del fuoco, dirigenti sindacali. Tutti assunti per chiamata diretta. Senza concorso. Tutti catapultati nel dipartimento-carrozzone più generoso d’Italia». In maggio le indagini che inseguono il filo dei soldi e dei «fondi neri» della Protezione civile, come vengono subito definiti dai cronisti, arrivano all’Istituto per le opere religiose, il mitico Ior, la banca del Vaticano che la vulgata comune vuole circondata dal mistero più fitto fino dai tempi di monsignor Paul Marcinkus, del banchiere Roberto Calvi e del finanziere siciliano Michele Sindona. E tanto basta per imprimere al tutto l’aura di sospetti ancora più densi e inquietanti. Poi finiscono sotto inchiesta altri appalti milionari, quelli per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Insomma, pare che l’inchiesta abbia scoperchiato un verminaio senza fine.
Il 15 giugno 2010 arriva un’altra mazzata per Balducci, che intanto è sempre rinchiuso in cella (verrà liberato soltanto sei mesi dopo, il 20 dicembre). Il ‘Corriere’ titola a nove colonne: Anemone,tangenti dai conti della segretaria. Una decina di operazioni sospette per oltre un milione di euro. Fiorenza Sarzanini, un’abile cronista di giudiziaria, affonda il coltello: «Oltre un milione di euro elargiti movimentando i conti intestati alla sua segretaria. Una decina di operazioni sospette, a fronte di sette appalti ottenuti soltanto nel 2008: i pubblici ministeri ricostruiscono il passaggio dei soldi versati da Diego Anemone, imprenditore privilegiato nell’assegnazione dei lavori per i ‘Grandi eventi’». Spiega la giornalista: «Anemone si mostra riconoscente con il provveditore Balducci, al quale aveva già regalato case e soldi: soltanto per pagare gli arredi dell’appartamento del figlio spende oltre 40.000 euro, che però fattura alla società che si è aggiudicata la gara. Il resto lo elargisce in contanti, facendo prelevare soldi dai conti che ha intestato a uno dei suoi prestanome più fidati: la segretaria Alida Lucci […]. Sono nove operazioni sospette, per importi che oscillano tra i 100.000 e i 300.000 euro. I magistrati sono convinti che si tratti di tangenti». Non sono molte, a questo punto, le voci che esprimono dubbi sull’inchiesta. Spicca Pierluigi Battista, commentatore di quel medesimo ‘Corriere’ che pure non lesina impietose descrizioni degli indagati. Ecco che cosa scrive, il 29 giugno 2010, con qualche giustificata e amara ironia: «Ai tempi di Mani pulite […] capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della ‘cricca’, ha deplorato addirittura ‘uno stile di vita antigiuridico degli indagati’ nonché, testuale, ‘l’atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria’. Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’‘ipotesi accusatoria’ costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti (gli ‘stili di vita’) efficaci ai fini della scarcerazione». Ma gli arrestati restano in carcere. E le indagini preliminari, intanto, vanno avanti: sono lunghe e complesse, e per una serie di motivi procedurali e di competenze territoriali e funzionali fanno il giro di diverse procure. L’inchiesta trasloca prima da Firenze a Roma. Poi, dato che Achille Toro, uno dei procuratori aggiunti della capitale, viene clamorosamente accusato di avere fatto da «talpa» a favore di alcuni indagati, viene trasferita a Perugia, la cui procura è competente per le indagini sui magistrati romani. Ogni spostamento, comunque, si accompagna a nuove scoperte e a nuove accuse. L’estate 2010, per esempio, si apre mentre l’attenzione dei mass media si concentra su un appartamento in via Giulia, a Roma, il cui affitto il costruttore Anemone avrebbe pagato in nero, per conto di Bertolaso, dal 2003 al 2007. Il sottosegretario ha la pessima idea di dichiarare, inizialmente, di non avere mai posseduto un appartamento in quella via. Poi cambia versione e ammette di averlo avuto in affitto «grazie a un amico». Sui giornali si scrive che i pagamenti avvenivano in nero. È il disastro finale. Tra il 25 e il 26 gennaio 2011, finalmente, le indagini vengono chiuse. In ventitré pagine la procura di Perugia contesta a Bertolaso di avere «compiuto scelte economicamente svantaggiose per la pubblica amministrazione, ricavandone favori e utilità». Le contropartite sarebbero stati l’appartamento in via Giulia, a Roma, «pagato da Diego Anemone dal gennaio 2003 all’aprile 2007», più 50.000 euro in contanti «consegnati da Anemone brevi manu il 23 settembre 2008», più «la disponibilità al Salaria Sport Village di una donna di nome Monica, allo scopo di fornire prestazioni di tipo sessuale». Questo avrebbe ricevuto il capo della Protezione civile, e in cambio il costruttore Anemone avrebbe ottenuto appalti per 75 milioni in tre anni. La sproporzione potrebbe indurre qualche cronista a ipotizzare un dubbio, forse addirittura qualche riserva sull’ipotesi accusatoria. Invece, ancora una volta, nulla. Nemmeno la conclusione delle indagini, comunque, serve ad allentare la tensione, perché due giorni dopo a Napoli scatta un’altra inchiesta, stavolta sull’emergenza rifiuti: molti funzionari pubblici sono coinvolti e accusati di avere favorito lo sversamento a mare di tonnellate di liquami pericolosi per la salute. L’arresto in particolare di Marta Di Gennaro, ex numero due di Bertolaso alla Protezione civile, ancora una volta serve soprattutto per colpire l’ex sottosegretario. Anche se il suo nome in questo caso non è coinvolto neppure di striscio. Non per nulla, nelle fotografie pubblicate sui giornali per illustrare il nuovo scandalo ancora una volta campeggiano le immagini di Bertolaso. Ma non è finita.
Il 2 febbraio 2011 escono nuove carte, estratte dai sessanta raccoglitori appena depositati dalla procura di Perugia come documentazione per la richiesta di rinvio a giudizio. Quel giorno il ‘Messaggero’, con un richiamo in prima e poi con l’intera pagina 11, titola: G8, spunta il tesoro della cricca: ci sono 75 milioni da sequestrare. E nel sommario: Soldi pure al cognato da Bertolaso, per girare un film per Medusa. Sotto una grande fotografia del capo della Protezione civile, imbronciato e a braccia conserte, si legge che «il tesoretto della banda Anemone è di 75 milioni di euro, elencati alla virgola in un rapporto di ventinove pagine infilato in sessanta faldoni di atti che ieri la procura di Perugia ha messo a disposizione degli imputati e dei loro legali». Condizionali? No. L’alea del dubbio? E perché mai? L’ipotesi che anche il film sia una presunta tangente, in realtà, è lambiccata. Scrive poco più in basso il ‘Messaggero’: «Ci sono incarichi per tutte le professionalità, nel giro della Criccopoli di Balducci. Per esempio, ecco il cognato di Bertolaso, Francesco Piermarini, che ha il pallino del cinema con un piede nella società di produzione Le Grand Bleu, che nel 2003 produce il film Il servo ungherese. L’operazione costa alla società 2.279.000 euro, ma nel bilancio i segugi della Guardia di finanza trovano la precisazione che spiega come oltre al finanziamento dello Stato, che coprirà una parte delle spese, il debito diventerà ricavo nel 2004 grazie allo sfruttamento dei diritti del film da parte di Medusa cinematografica». Spiegazione ingarbugliata. Pare di capire che, attraverso la Medusa, si sia voluto compensare Piermarini. Ma perché mai questo sarebbe dovuto accadere proprio attraverso la Medusa? Forse perché si tratta di un’azienda berlusconiana? L’insinuazione non regge. È un mistero. Quello che conta, però, è che si sia dato conto di uno strano giro di soldi. Spiega il ‘Messaggero’: «Le pagine dell’inchiesta raccontano come il sistema messo in piedi dalla Criccopoli che faceva capo ad Angelo Balducci si preoccupasse di gratificare tutti i partecipanti alla grande abbuffata di appalti e di soldi pubblici. E siccome la fetta più grande della torta era targata Protezione civile, ecco che la famiglia Bertolaso diventa il punto di riferimento di quel vortice di denaro». Del resto, anche la ‘Repubblica’ rivela che, oltre al cognato, perfino la moglie di Bertolaso avrebbe «goduto di un ritorno economico nei rapporti con società riconducibili al cartello Anemone o con la grande committenza pubblica». Il titolo dell’articolo è duro, assertivo: Tutti gli affari della famiglia Bertolaso, consulenze d’oro a moglie e cognato. Carlo Bonini, uno dei cronisti di punta del quotidiano, scrive che «la signora Gloria Piermarini è titolare del conto corrente […] presso la filiale Bnl di Roma […] e già dall’esame dell’estratto conto possono essere rilevate operazioni d’interesse investigativo: almeno quattro tra l’ottobre 2004 e l’aprile 2007, per un totale di oltre 100.000 euro». Aggiunge Bonini che «non emergono giustificativi intellegibili per spiegare» l’origine di quei versamenti, tutti partiti da società in qualche modo vicine agli appalti per i restauri sui quali operava Balducci, cioè il «complice» dell’ex capo della Protezione civile. Ma ce n’è anche per Francesco Piermarini. Bonini si diffonde sulle consulenze ottenute dal cognato di Bertolaso direttamente dalla Anemone Costruzioni: «Quello che non sapevamo, e che adesso scoprono i Carabinieri e la Guardia di finanza, è che nel 2005 il cognato del potente capo della Protezione civile viene tirato dentro da Diego Anemone nei lavori di ristrutturazione della ex caserma Zignani (un immobile romano del Sisde, l’ex servizio segreto civile, N.d.A.)».
E così ecco che nella torbida vicenda della cricca bertolasiana fanno il loro ingresso trionfale anche i servizi segreti. Quelli fanno parte della migliore tradizione giornalistica italiana, nelle migliori inchieste sono praticamente immancabili. Un prezzemolo che insaporisce il piatto. Trascorrono quindi due mesi; la storia scompare quasi dalle pagine dei quotidiani. Poi il 5 aprile 2011 esce la notizia che a Roma si è aperto il primo di una serie di procedimenti. È quello meno importante, tratta di alcuni presunti abusi edilizi compiuti in diversi impianti sportivi della capitale in vista dei mondiali di nuoto del 2009, ed è in realtà l’indagine da cui sono partite tutte le successive inchieste sui grandi eventi affidati alla Protezione civile, tra cui il G8. «Sul banco degli imputati» scrive la ‘Repubblica’ «ci sono trentatré persone, tutte citate a giudizio dal pm Sergio Colaiocco». Sono Balducci, Anemone, altri imprenditori. E c’è Simone Rossetti, gestore del centro benessere Salaria Sport Village. Ovviamente la ‘Repubblica’ sottolinea che l’imputato «è finito nelle intercettazioni con Bertolaso, ormai all’attenzione dei pm di Perugia, per alcuni incontri che sarebbero avvenuti nel settore spa e benessere del centro». Fitto è il calendario delle udienze in calendario, da aprile a luglio inoltrato. Ma sui giornali, di quanto accade in tribunale, compare ben poco. Presto partiranno anche gli altri procedimenti aperti sulla cricca, e si vedrà come si difenderanno gli indagati. Alla fine, che cosa accadrà all’imputato Bertolaso? Sarà condannato? Sarà assolto? Tutto sommato, si può già dire che poco importa. Perché questo è, in definitiva, l’effetto dei grandi processi mediatici: quando le indagini preliminari sono terminate, i tribunali, le udienze, il confronto processuale tra accusa e difesa perdono importanza. Perfino le sentenze hanno poco interesse. Tutto evapora, svanisce sullo sfondo. Resta soltanto la violenza della gogna. E il fiume di fango di cui si nutre. Ma sull’altra sponda del fiume, immacolate qualunque sia la sua effettiva responsabilità penale, restano le parole che Bertolaso ha dettato in una lunga lettera indirizzata alla ‘Repubblica’ e pubblicata all’inizio dell’inchiesta, il 15 febbraio 2010. In un mondo ideale queste parole dovrebbero fare parte del patrimonio culturale di chiunque si occupi di giustizia e d’informazione. Nell’Italia di oggi dovrebbero essere iscritte all’ingresso di ogni scuola di giornalismo. Ecco il monito di Bertolaso: «Io ho grande considerazione per il lavoro della magistratura […]. Mi piacerebbe molto, invece, che i processi mediatici come quello che adesso si sta celebrando contro di me, imputato pubblico di turno, scomparissero. Rispetto l’opinione pubblica, al punto da essermi fatto un punto d’onore nel meritare la fiducia dei cittadini; ma non credo le si renda servizio spargendo illazioni, informazioni non verificate, sospetti, teoremi di colpevolezza data per certa quando nessun giudice si è pronunciato. Questo sì, in violazione dei principi costituzionali. La libera stampa, se sviscera gli elementi di prova addotti dai giudici per una loro decisione, può rendere un servizio ai cittadini e al Paese. Quando spande fango, meno».
Maurizio Tortorella, La Gogna, Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia, Boroli Editore, Milano 2011.