La vera storia del Generale Custer secondo Nathaniel Philbrick

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La vera storia del Generale Custer secondo Nathaniel Philbrick

07 Novembre 2010

Una delle cose belle dello studio della storia è il suo dinamismo, la continua rilettura di fatti che sotto il peso del tempo finiscono per assumere forme diverse fino a raggiungere una configurazione (più o meno) condivisa nel lunghissimo termine.

E forse uno dei motivi di maggior fascino della storia americana è che essendo una storia recente, spesso e nel breve volgere delle stagioni, propone voci discordi ed originali che si scontrano senza sosta su eventi freschi nella memoria, che è possibile toccare con le proprie mani. Uno di questi è senz’altro la storia della fine del Generale Custer, ucciso con tutti i suoi del settimo cavalleggeri in quel di Little Bighorn dagli indiani comanche guidati dal Grande Capo Toro Seduto.

A proporre una rilettura originale sulla figura del Generale Custer, che è anche uno studio sugli equipaggiamenti e le condizioni di quella stagione militare americana, è Nathaniel Philbrick, già messosi in mostra con il suo “Sea of Glory”, nel quale sosteneva la tesi secondo la quale la prima frontiera del paese a stelle e strisce fu l’Oceano e non il West.

L’ultimo lavoro di Philbrick, “The Last Stand: Custer, Sitting Bull, and the Battle of the little Bighorn”, 2010 Viking – pagg. 466, mette a fuoco quel giugno del 1876 in cui gli Stati Uniti d’America, nel loro centenario, scoprirono che il destino luminoso che avevano davanti sarebbe stato una rosa piena di spine.

Quando i rinforzi giunti in ritardo arrivarono sul campo di battaglia trovarono un unico superstite, un veterano in fin di vita, crivellato di fucilate e frecce, lo shock della nazione fu tale che il soldato fu curato e accudito con tutti gli onori. Su quest’onda emotiva nacquero le prime interpretazioni agiografiche de Generale Custer, racconti che lo ritraevano come un nuovo Leonida alle Termopili, ripresi poi dalla Hollywood che accompagnava il Paese nell’avventura della seconda guerra mondiale (“They died with their boots on” – 1941).

Ma con l’avvento della stagione delle contestazione, con il ’68 dei film alla “Soldato Blu”, film capostipite del auto-pentitismo cinematografico sul ruolo di motore della civilizzazione incarnato dagli U.S.A., l’eroe degli anni della Guerra Civile, colui che era considerato uno tra i migliori soldati dell’esercito federato se non il migliore, divenne uno spregiudicato avventuriero, poi uno spostato, infine un maniaco sanguinario sul modello delle SS.

La realtà della battaglia di Little Bighorn per Philbrick è invece un’altra. In quel giugno il Generale Custer commise il grave errore di separare le proprie forze in un terreno di battaglia costituito da pianure cui i propri soldati non erano abituati; provenivano nfatti quasi tutti da Stati ad est del Mississippi quelli propriamente americani, mentre vi era un nutrito gruppo di europei provenienti dall’Irlanda, dalla Germania e in parte dall’ Inghilterra.

Gli indiani di Toro Seduto non erano una romantica banda di eroici straccioni, negli anni ’80 attraverso l’utilizzo del metal detector è stato possibile trovare sul campo di battagli oltre alle Springfield e alle Colt dei soldati del settimo cavalleggeri, insieme agli archibugi di dubbia efficacia con cui si accompagnavano i comanche anche fucili a ripetizione Henry and Winchester di cui è stato provato fossero armati 300 indiani. Il terreno, le condizioni atmosferiche (pioggia e fango), l’avere cavalli più leggeri e freschi, la mancanza di rifornimenti e il disporre gli indiani di armi a ripetizione contro quelle a colpo singolo dei soldati di Custer, l’impeccabile tattica di consolidamento del proprio esercito di Toro Seduto, produssero la sconfitta da leggenda del Little Bighorn.

La fine del Generale Custer, insieme alla difesa di Fort Alamo in Texas, nel quale allo stesso modo dei soldati del settimo cavalleggeri i difensori del forte trovarono, tutti, la morte, nella difesa dall’assalto dei messicani, resta uno dei momenti topici dello sviluppo della consapevolezza americana sul valore della propria missione civilizzatrice, nel libro essa è raccontata con finezza letteraria ed equilibrio dall’autore, il quale rende giustizia ad uno dei protagonisti della storia americana su cui con troppa faciloneria è stata gettata l’ombra sinistra del cripto-nazismo.