La versione di (Matthew) Barney
21 Novembre 2008
Bello, ricco, famoso e sposato con una pop star di fama mondiale. David Beckham? No, Matthew Barney. Artista amato e odiato, da molti considerato riferimento obbligatorio per l’arte del 2000, da altri solo un gigantesco bluff; di certo una star.
Un artista originale la cui opera attraversa diversi ambiti culturali, creando un linguaggio artistico trasversale e unico nel suo genere. Il suo lavoro mescola frammenti di tutte le mitologie prodotte nella storia dell’umanità, dando vita a una nuova grande cosmogonia, onnivora e ibrida.
Barney nasce a San Francisco, il 25 marzo del 1967. Qualche anno dopo il padre deve trasferirsi per motivi lavorativi nella gelida e lontana Boise in Idaho e porta la sua famiglia con sé. Qualche anno e i genitori divorziano, così il piccolo Matthew resta col padre che si occupa della mensa dell’Università Statale di Boise ma trascorre tutte le estati con la madre, artista concettuale, a New York tra una galleria, una mostra e gli amici artisti della mamma.
Il Barney adolescente è molto distante da quello che sarà dopo. La sua creatività resta solo latente e si nasconde nel fisico di un brillante Quarterback della squadra di football della sua scuola. Si diploma nel 1985 e inizia a lavorare sodo per esaudire un sogno: quello di iscriversi alla facoltà di Medicina nella prestigiosa università di Yale, in Connecticut. Il suo fisico atletico e i bei lineamenti gli permettono di lavorare come fotomodello presso la Click Modeling Agency. Fa servizi fotografici per Calvin Klein, Ralph Lauren e J. Crew.
Intanto, racimolato un degno gruzzolo, si iscrive alla facoltà di Medicina ma dopo solo due semestri decide di cambiare radicalmente: abbandona scarpini, casco e conchiglia da football e manuali di traumatologia, sfigmomanometri e bisturi per gettarsi nelle Arti Visive, seguendo quasi involontariamente le orme materne.
Nel 1989 conclude i suoi studi con una Tesi dal titolo “Field Dressing” (Superficie Fasciata): un video d’arte realizzato in due stanze del Payne Whitney Gymnasium di Yale.
Riconsegnate le chiavi della sua stanza di Yale, un neo-laureato Matthew Barney parte alla volta di New York. Sono gli anni Novanta e l’arte è in piena crisi di mercato dopo i fasti del decennio precedente. Si cercano nomi nuovi, si cerca un nuovo tipo di creatività. È in questo contesto che il giovane Matthew prende casa assieme al suo amico collega Michael Rees conosciuto a Yale. Nel 1990 espone la sua tesi “Field Dressing” nella mostra collettiva all’Althea Viafora gallery di New York.
Viene notato dalla gallerista della Clarissa Dalrymple, la quale gli propone una mostra personale. Lui è al settimo cielo, ma purtroppo dopo pochi mesi la galleria chiude i battenti e Barney è costretto a fare fagotto delle sue opere. In quei giorni, nella ormai ex galleria d’arte, Matthew Barney conosce Mary Farley, anche lei giovane artista, che diventerà sua moglie.
Nonostante il fallimento commerciale della sua galleria, la Dalrymple suggerisce a Barbara Gladstone, sua collega, di scommettere sul quel bel ragazzo dell’Idaho. La Gladstone resta folgorata dalle sue opere quando entra nel suo studio. È il 1991 e sta per iniziare la straordinaria carriera di Barney artista. Grazie alla Gladstone infatti inizia ad esporre in tutto il territorio degli Stati Uniti d’America. Ma non solo, arriva la fama mondiale nel 1992 partecipa a Documenta IX a Kassel in Germania, e nel 1993 alla Whitney Biennial e alla Biennale di Venezia dove vince il premio come miglior videoartista esordiente. Ma la svolta avviene l’anno dopo quando nel 1994 inizia la sua colossale produzione del Cremaster Cycle.
La Gladstone punta tutto su di lui e si trasforma quasi in una produttrice cinematografica dimostrando oltre che una conoscenza approfondita dell’arte (lei che e’ una delle poche galleriste laureata in Storia dell’Arte) visto che i film di Barney sono, a torto o a ragione, ritenuti un momento focale dell’ultimissima arte contemporanea, una grandissima capacità imprenditoriale nel capire dieci anni prima degli altri i mutamenti in senso industriale dell’arte.
I film del Cremaster Cycle, sono un grande meltin’pot di storia, autobiografia e mitologia dentro un universo surreale e fantastico fatto di immagini e simboli che si trasformano e intrecciano continuamente. Il ciclo, il cui titolo si riferisce al “muscolo cremasterico”, quello che eleva ed abbassa il sistema riproduttivo maschile secondo la temperatura, la stimolazione esterna o la paura, è suddiviso in cinque episodi: Cremaster 4 (1994), Cremaster 1 (1995), Cremaster 5 (1997), Cremaster 2 (1999), Cremaster 3 (2002). La sequenza numerica 4-1-5-2-3 contiene una simmetria costruita intorno al numero cinque che si trova in posizione centrale, e che risulta la somma delle coppie numeriche alla sua destra e sinistra, ma che corrisponde anche alla classica pentapartizione in atti delle antiche tragedie greche.
Ogni film presenta Barney in ruoli diversi, tra cui un satiro, un mago, un ariete, l’illusionista Harry Houdini ed anche l’assassino Gary Gilmore. Attraverso le immagini sfarzosamente barocche, l’artista medita in modo assolutamente personale sulla realtà dell’individuo in una società dove l’identità è ambigua e in movimento.
Dopo un viaggio tra le fate dell’isola di Man nel mare d’Irlanda (Cremaster 4, 1995), un musical surreale girato su un campo di football americano in Idaho (Cremaster 1, 1996), un melanconico finale fra i bagni e i teatri di Budapest (Cremaster 5, 1997) e una sorta di western gotico, incentrato sulla figura di Gary Gilmore (Cremaster 2, 1999), Matthew Barney in Cremaster 3 (2002), punto centrale della saga, mette insieme il genere zombie thriller con il gangster. Il film, che si svolge nel 1930, e mescola mafia, massoneria, folclore celtico e passioni Art Deco, si svolge tra New York, Saratoga Springs, Giant Causeway in Irlanda e la Fingall’s Cave a Staffa, un’isola delle Ebridi Scozzesi.
A conclusione del ciclo, tra il 2002 e il 2003 l’intera saga fa il giro del mondo, presentata presso prestigiosissime istituzioni come il Museum Ludwig a Colonia, il Musee d’Art Moderne de la Ville de Paris e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York.
Parallelamente alla saga “fallica” Barney ha sviluppato fin dal 1987 un ulteriore ciclo “Drawing Restraint”, ispirato all’idea della resistenza (Restraint) come prerequisito per lo sviluppo e veicolo per la creatività. I primi capitoli erano performance che terminavano con la creazione di un segno, un disegno, uno schizzo. Il disegno era creato tramite degli sforzi compiuti dall’artista, sforzi ginnici. Barney usava attrezzi per fare ginnastica, si lanciava da trampolini, si arrampicava, compiva azioni finalizzate a immagazzinare forza ed energia e i disegni che ne uscivano erano la rappresentazione di quella stessa forza accumulata e trattenuta.
Drawing Restraint 7 (1993), che precede immediatamente il primo Cremaster, è invece un video ambientato in una limousine. I passeggeri sono creature mitologiche, a metà tra un essere umano e un animale, una sorta di centauri. Anche qui Barney è uno degli attori, l’autista della limousine. Questi esseri, all’interno della macchina, lottano tra loro, e con le loro corna e protuberanze lasciano dei segni sul tetto della limousine. Nel 2006 viene presentato Drawing Restraint 9 dove si assiste al debutto professionale e artistico della coppia Barney-Bjork, uniti anche nella vita. Bjork, si proprio la celebre Pop star Islandese. Nell’Agosto del 2001 in una occasione mondana Matthew, all’apice di un successo planetario, la incontra. Pochi giorni dopo sua moglie Mary Farley riceve una busta con le pratiche di divorzio. Il 3 ottobre del 2002 Bjork da alla luce la figlia di Mattew Barney con il nome, Isadora, che deriva dall’affermazione fatta dall’artista al momento della sua nascita: “She is adorable”!
I due compagni, sempre uniti nonostante i numerosi impegni di entrambi, lavorano insieme all’ultima opera dell’artista Drawing Restraint 9 (2006). Concepita come un’opera musicale dalla forte connotazione teatrale, il film, rappresenta un’ulteriore evoluzione del concetto di mutazione, trasformazione e ricerca di una forma, perno di tutta la ricerca artistica di Barney.
L’opera racconta le relazioni tra Giappone e Stati Uniti d’America dopo le bombe su Hiroshima e Nagasaki, quando il generale MacArthur, permise ai giapponesi la caccia alla balena quale fonte di sostentamento per il paese.
Al largo della baia di Nagasaki, sulla baleniera giapponese Nisshin Maru – unica nave/fabbrica attualmente operante al mondo – si celebra il matrimonio, con rito scintoista, tra i due personaggi interpretati dall’artista e la musicista/attrice. Una immensa scultura in vaselina liquida, nelle sue trasformazioni, funge da raccordo con la vicenda dei due protagonisti. Quattro tappe rituali scandiscono le oltre due ore di narrazione: il trasporto, il lavaggio-vestizione, il tè, la mutilazione. Cio’ che conta come in tutti i lavori di Barney non è la narrazione, assolutamente priva di linearità, ma la costruzione di immagini che rimangono impresse nella memoria dello spettatore come fossero sculture isolate, rivelando tutto il suo talento come artista visivo.
Con il suo lavoro Matthew Barney ha segnato un momento in cui l’arte visiva si è iniziata ad avvicinare ad un livello di produzione simile a quello cinematografico. Ha aperto una strada che altri hanno seguito negli ultimi anni, migliorandola e raffinandola. Douglas Gordon, Philippe Parreno, Steve Mcqueen, solo per citarne alcuni, pur completamente diversi tra loro e agli antipodi con Barney per scelte stilistiche, formali e contenutistiche, sono però figli di quella rivoluzione.
Con la sua visionarietà ha trovato un modo per esprimere in immagini la grande orgia di pensieri, sogni e incubi che si annidano nei meandri delle menti umane.
Avrebbe potuto scegliere altre strade e forse sarebbe riuscito anche in quelle. Ha deciso di fare l’artista perché era nei suoi geni. L’ha deciso con buona pace di tanti. Forse anche se inconsapevolmente anche con quella di David Beckham.