La vita bussa a 22 settimane Ma qualcuno non ci crede

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

La vita bussa a 22 settimane Ma qualcuno non ci crede

05 Dicembre 2007

Grandi prematuri: quasi un ossimoro per indicare bambini piccolissimi, nati poco oltre la metà della gravidanza,
destinati a morte certa fino a pochi anni fa, con sempre più speranze
di sopravvivere man mano che scoperte scientifiche e sviluppi
tecnologici mutano la prassi medica.

Ce ne ha parlato spesso su queste pagine il neonatologo Carlo Bellieni,
spiegandoci che la probabilità di sopravvivenza a 22 settimane di
gestazione è oramai del 10%, e aumenta con il procedere delle settimane
di gestazione.

C’è dibattito fra gli specialisti del settore, per
stabilire se esiste e quale sia la soglia al di sotto della quale non
tentare alcun intervento sul piccolo nato, per evitare trattamenti
inutili e sproporzionati. Quello delle 22 settimane, al momento, sembra
essere il limite della sopravvivenza al di fuori del grembo materno. Ma
la piccola Amilla Taylor, nata pochi giorni fa a Miami a 21 settimane,
è lì a dimostrare la possibilità dell’impossibile, o la facilità con
cui si possono sbagliare i calcoli sulla settimana gestazionale.

Quali che siano i criteri che gli addetti ai lavori sceglieranno per
decidere quando intervenire sui piccoli nati, dunque, sarà opportuno
innanzitutto che non siano astrattamente rigidi ma lascino aperta la
possibilità di diagnosi personale, caso per caso.

Sarà anche bene
poi ricordare che al momento della nascita non c’è tempo per lunghi
consulti: i grandi prematuri soffrono, non sono in grado di respirare
da soli, il cuore spesso batte così lentamente che è difficile anche
solo trovarlo. E i medici devono decidere subito, perché per ogni
secondo che passa senza che il cervello venga ossigenato bruciano
irreparabilmente migliaia di neuroni.

In questi casi è però sbagliato e
fuorviante parlare di rianimazione: il primissimo intervento consiste
semplicemente nel far respirare il bambino, a volte usando l’ossigeno,
a volte l’aria dell’ambiente.

Esclusivamente aiutandolo subito a respirare se ne potranno poi
valutare i segni vitali, e solo in un secondo momento si potrà
stabilire se e come continuare a intervenire, in stretta relazione con
i genitori.

Crediamo che questa prima opportunità di sopravvivenza
non si possa definire ‘accanimento’, e anzi riteniamo che al di sopra
delle 22 settimane una chance vada sempre data, ogni volta a giudizio
del medico. Ricordando la piccola, tenace Amilla.

C’è poi chi
ritiene sia inutile intervenire su un prematuro se ci sono elevate
probabilità che rimanga disabile. Costoro parlano di ‘qualità della
vita’, sostenendo che un’esistenza condannata a gravi disabilità non
valga la pena di essere vissuta (ma chi stabilisce il limite di gravità
dell’handicap?): meglio sarebbe, dicono, non iniziarla mai. Ma al
momento della nascita nessuno è in grado di dare con certezza una
rigorosa prognosi di disabilità: esistono bambini perfettamente normali
dopo una nascita segnata da gravi sofferenze, come anche bambini
apparentemente vitali che poi mostrano gravi danni cerebrali. È
soprattutto intollerabile e indubbiamente discriminatorio stabilire che
ci siano persone senza diritto di soccorso e di cura alla nascita solo
perché in futuro potrebbero essere disabili. Se accettassimo questo
principio, se un certo grado di disabilità fosse il criterio per
decidere di aiutare o meno la sopravvivenza di una persona (in questo
caso già nata), in breve questo spietato parametro verrebbe esteso a
tutti: neonati, adulti, anziani, persone di qualunque età. È così?
Allora non nascondiamoci dietro ai ‘grandi prematuri’, e parliamo
esplicitamente di discriminazione verso chi è più fragile.