La “war on terror” americana può ancora vincere

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La “war on terror” americana può ancora vincere

16 Maggio 2007

Intervista a Carlo Jean

Il Medio Oriente e la guerra al terrorismo, le relazioni transatlantiche e il futuro dell’Europa, la Turchia e il ruolo internazionale dell’Italia, su questi aspetti cruciali della realtà storica contemporanea il generale Carlo Jean, docente di Studi Strategici alla Luiss e presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, ha espresso il suo punto di vista di massimo conoscitore delle problematiche geopolitiche, di sicurezza e difesa. Già consigliere militare del presidente della Repubblica e rappresentante personale del presidente dell’Ocse per l’attuazione degli accordi di pace di Dayton, il generale Jean non si dice stupito dell’avvicinamento in corso tra Stati Uniti e Iran.

Qual è la chiave d’interpretazione del via libera ai colloqui sulla stabilizzazione dell’Iraq tra Washington e il regime khomeinista?
Alla luce della situazione irachena, era prevedibile, anzi inevitabile che gli Stati Uniti prima o poi decidessero di formalizzare un percorso diplomatico volto a trovare una forma di modus vivendi con l’Iran. Ora siamo nella fase in cui entrambi i paesi cercano di porsi nella migliore posizione negoziale possibile in vista di un accordo. Ma mentre l’Iran spinge per affrontare in un negoziato omnicomprensivo tutte le questioni in ballo – dall’Iraq al nucleare fino al separatismo curdo – gli Stati Uniti sono decisi a trattare separatamente ogni singola questione per non correre il rischio di stringere un accordo complessivo al ribasso. La situazione va comunque considerata sullo sfondo della contrapposizione tra sunniti e sciiti che è determinante per gli equilibri del Medio Oriente. Si tratta, a ben vedere, di una contrapposizione politica e non religiosa. L’Arabia Saudita si sente minacciata dalle ambizioni egemoniche regionali di Teheran e non dalla sciismo in quanto tale. Naturalmente le motivazioni politiche ricevono una copertura religiosa.

Il rinnovato attivismo dell’Arabia Saudita si può inquadrare pertanto in un’ottica antiraniana?
Con re Abdullah l’Arabia Saudita ricopre un ruolo centrale in ogni processo in atto in Medio Oriente e sta utilizzando le sue enormi disponibilità finanziarie proprio con l’intenzione di contrastare l’espansionismo iraniano. È così in Libano, dove Riyad appoggia il governo Siniora minacciato da Hezbollah, in Siria, dove l’obiettivo è rompere l’asse Damasco-Teheran per riportare Assad sul versante arabo, e nei territori palestinesi, con il tentativo di allontanare Hamas dall’orbita degli ayatollah. Sempre in chiave antiraniana vanno interpretati l’acquisto di armamenti molto sofisticati dagli Stati Uniti e l’abbozzo di un avvicinamento ad Israele. L’intensificazione delle relazioni con la Cina risponde alla stessa logica. I buoni uffici di Pechino potranno rivelarsi utili anche in caso di un allentamento del rapporto con Washington, che dopo le incrinature prodotte dall’11 settembre potrà soffrire di ulteriori tensioni. L’Arabia Saudita, però, come i restanti paesi del Golfo, non potrà mai fare a meno della garanzia di sicurezza americana. La struttura tribale della sua società non permette la costruzione di un esercito forte ed efficiente e perciò non riuscirà mai ad emanciparsi dalla dipendenza strategica degli Stati Uniti. Infatti, le numerose tribù del regno su cui i Saud hanno imposto il loro predominio, una volta armate per dar vita a una compagine militare di rango, potrebbero rivolgersi contro la stessa famiglia reale per strappargli il potere, riportando così la Penisola Arabica allo stato di conflittualità permanente che l’ha attraversata per secoli.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, a sei anni dall’11 settembre, con le operazioni in Afghanistan e Iraq ancora in corso, a che punto è la guerra al terrorismo? Il suo bilancio è positivo o negativo? La situazione di stallo che si è venuta a creare in Iraq ha reso impraticabile l’idea della democratizzazione del mondo arabo e musulmano?
A mio avviso, la bomba democratica si è rivelata una pistola scarica. La democrazia non può essere applicata a società tribali, suddivise in clan e famiglie, che non hanno sperimentato il processo di nazionalizzazione delle masse. Al contrario, la guerra al terrorismo può essere considerata un successo. La direzione strategica di Al Qaeda è stata scompaginata e la sua capacità di procurarsi armi di distruzione di massa, che è tuttora la preoccupazione maggiore, sembra essere notevolmente diminuita. Gli Stati Uniti hanno cercato sin dall’inizio di esternalizzare il conflitto in modo da non combatterlo sul proprio territorio, con il risultato di aver fatto concentrare la gran parte dei jihadisti in Iraq e in Afghanistan e di non aver più subito attentati dall’11 settembre. Dunque, a parte la gestione disastrosa del dopo Saddam in Iraq, l’esternalizzazione della guerra al terrorismo sta avendo successo e gli Stati Uniti non possono rinunciarvi. Nessun presidente americano, democratico o repubblicano, farà mai marcia indietro perché nell’eventualità di un nuovo attentato in America sarà il presidente a esserne considerato responsabile e a salire sul banco degli imputati. Alle prossime elezioni presidenziali, dovessero anche vincere i democratici, la politica americana non subirà cambiamenti di rotta. Quella che si prospetta è una guerra lunga e di logoramento. La prima fase, quella della frammentazione strategica, ha già dato esito positivo. La seconda, che si sta combattendo sul terreno dell’intelligence e delle misure di polizia, consiste nella creazione di “reti di terrore nel terrore”, così da costringere le cellule jihadiste a pensare alla sopravvivenza piuttosto che a fare attentati.

Se la guerra al terrorismo americana ha prodotto i primi risultati concreti, qual è la situazione dell’Europa, che al terrorismo islamico ha preferito non dichiarare guerra?
I paesi europei hanno adottato una politica diversa dagli Stati Uniti, a cominciare dalla percezione del fenomeno. Il terrorismo è stato considerato al pari di una qualsiasi attività criminosa e non come una minaccia alla sicurezza nazionale. Di conseguenza, niente guerra ma ordinarie azioni di polizia contro i terroristi. L’inseguimento del mito della società multiculturale sta poi facendo il resto: oggi l’Europa è diventata base logistica dell’internazionale del terrorismo islamico e il centro di produzione di shahid pronti a recarsi nei fronti caldi del jihad. Questo negli Stati Uniti non accade, anzi alle ultime elezioni presidenziali la maggioranza dei musulmani americani ha votato per Bush. Gli europei hanno allevato la serpe in seno.

L’elezione di Sarkozy potrà cambiare qualcosa nell’atteggiamento europeo verso il terrorismo?
No, quasi nulla, anche se ci sarà un miglioramento dei rapporti tra Francia e Stati Uniti. Questo non vuol dire che i francesi manderanno soldati in Iraq, tuttavia la diversa attitudine di Sarkozy rispetto a Chirac nei confronti dell’America, insieme alla Merkel in Germania e alla sua idea di un Trans-Atlantic Free Trade Agreement, potrà contribuire a rafforzare l’unità dell’Occidente. Realisticamente, pertanto, sembra che la tendenza in atto sia favorevole a un consolidamento del legame transatlantico dopo la frattura generatasi con la guerra irachena.

Grazie al motore economico l’Occidente potrà dunque ritrovare la sua unità.
A dire il vero non c’è solo l’economia perché bisogna prendere in considerazione anche la ritrovata forza della Russia. Gli europei non sono nelle condizioni di opporsi e, come è già accaduto nella guerra fredda, non possono che rivolgersi a “Mamma America” in cerca di protezione. A chiare lettere, l’Europa ha più bisogno dell’America, di quanto l’America abbia bisogno dell’Europa. In occasione della crisi in Iraq, l’Europa ha visto che, non solo contro ma anche senza gli Stati Uniti, il suo destino è la frammentazione e ha capito che se vuole esistere davvero come soggetto rilevante delle relazioni internazionali deve trovare l’unità e la sua ragion d’essere in chiave atlantica.

Come s’inserisce l’idea dell’Unione Mediterranea lanciata da Sarkozy nel quadro di una politica estera comune europea?
Va subito messo in chiaro che il cuore dell’Europa non è più in Francia ma in Germania. La politica estera tedesca guarda prioritariamente ad est e alla Russia. Di conseguenza, il baricentro di tutta l’Unione si è mosso verso est e la Francia non può farci nulla. Il Mediterraneo, inteso come Maghreb e Africa settentrionale, è ciò che rimane a Parigi come spazio geopolitico ed economico su cui esercitare la propria capacità di condizionamento. L’attenzione francese rivolta al Mediterraneo, in ogni caso, può essere considerata benefica per l’Europa intera. Il contrasto tra Stati Uniti e Cina, specialmente in Africa, ha fortemente indebolito la posizione degli europei che rischiano di essere definitivamente estromessi dall’area. L’attenzione che la Francia intende rivolgere al Mediterraneo “allargato” consentirà all’Europa di mantenere un certo spazio d’influenza.

Alla Germania l’est, alla Francia il Mediterraneo, e all’Italia?
Tutti e due, con una preminenza per l’est europeo. L’instabilità e le tensioni che attraversano il Mediterraneo rendono l’est un terreno più favorevole agli investimenti.

Che ruolo internazionale può svolgere il nostro paese?
L’Italia può concorrere alla formazione di una posizione comune in ambito europeo e può svolgere una funzione di appoggio alle iniziative americane per tentare di ristabilire l’unità dell’Occidente.

È quello che l’Italia del governo attuale sta cercando di fare?
Non esattamente. Il governo attuale ha voluto operare una discontinuità con la politica del governo Berlusconi, ma questa pretesa discontinuità ha rivelato tutti i suoi limiti perché non ci ha particolarmente avvicinati a Francia e Germania, come era nelle intenzioni, e ci ha alienato non di poco gli Stati Uniti.

La Turchia è sotto i riflettori per la battaglia in corso tra i sostenitori del modello laico e occidentalizzato di stampo kemalista e i fautori di una svolta islamista. Sullo sfondo la questione dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Quali sono gli aspetti positivi di una sua possibile entrata e quali gli elementi di rischio?
Personalmente sono favorevole all’ingresso della Turchia in Europa. Se la Turchia rimane esclusa può diventare nemica dell’Europa e destabilizzarla facilmente con gli oltre cinque milioni di turchi che vivono sul suo territorio. Tuttavia, per accogliere la Turchia è necessario anzitutto che l’Unione avvii un processo di rinnovamento. Le sue istituzioni sono state concepite quando l’Europa era a sei membri e hanno dato prova di eccessiva disomogeneità e inefficienza già adesso che i membri sono diventati ventisette. Figuriamoci con l’entrata della Turchia e dei suoi sessanta milioni di abitanti. L’altra condizione fondamentale, poi, è che la Turchia rimanga sufficientemente legata agli Stati Uniti. Se una volta entrata nell’Unione dovesse distaccarsene, la Turchia potrebbe adottare politiche incontrollabili e contrarie agli interessi dell’Europa, soprattutto nella regione dove le turbolenze geopolitiche sono più elevate, vale a dire il Grande Medio Oriente. Il pericolo maggiore per l’Europa verrebbe comunque da una Turchia islamista. In questo caso, la formazione di partiti islamisti all’interno del Parlamento europeo, a seconda di come si schiereranno, se con il raggruppamento progressista o con quello conservatore, farebbe della Turchia l’ago della bilancia della politica europea. Non è un caso che nella crisi in corso in Turchia l’Europa abbia messo da parte le pregiudiziali contro l’esercito turco, appoggiato peraltro dalla borghesia industriale e dai musulmani aleviti (che sono abbastanza secolarizzati), e ne abbia riconosciuto il ruolo di garante della laicità dello stato contro le derive islamiste. L’Europa ha tirato un sospiro di sollievo proprio grazie ai militari e se non vuole correre il rischio di dover far i conti con una Turchia islamista membro dell’Unione dovrà accettare la centralità dei militari nella vita politica turca.

Nella riorganizzazione dell’Unione Europea quale posto potrebbe occupare la Turchia? 
L’Unione assumerà verosimilmente una configurazione a cerchi concentrici. Il primo cerchio sarà costituito dal nucleo originario, quello che ha guidato il processo d’integrazione, con una tendenza all’adozione di una politica estera e di difesa comuni. Il secondo sarà il cerchio delle cooperazioni rafforzate tipo Euro e Schengen. Il terzo corrisponderà alla periferia dell’Unione, una specie di area di libero scambio di cui farebbe parte la Turchia.