“L’Afghanistan non sarà il 51esimo stato degli Usa”

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“L’Afghanistan non sarà il 51esimo stato degli Usa”

17 Marzo 2009

Said Tayeb Jawad è l’attuale ambasciatore afgano negli Stati Uniti. È stato nominato nel dicembre 2003. Nativo di Kandahar, nel 1980, dopo l’invasione sovietica, ha vissuto in esilio prima in Germania e poi negli Stati Uniti. Rientrato in Afghanistan nel 2002, ha collaborato con il presidente Karzai come suo addetto stampa prima della nomina ad ambasciatore.

Quali errori sono stati fatti dalla coalizione internazionale?

L’obiettivo immediato dell’intervento americano è stato quello di eliminare i terroristi e distruggere le basi di Al-Qaeda. Le istituzioni statali afgane erano state distrutte da 30 anni di guerra. L’institution-building avrebbe dovuto essere la priorità assoluta per la ricostruzione del paese. Così non è stato. Inoltre il rapido tracollo dei talebani aveva suscitato un eccessivo ottimismo, mentre la guerra in Iraq distraeva attenzione e risorse dall’Afghanistan. Per la verità i talebani non sono mai stati eliminati ma solo spinti verso le campagne od oltre il confine.

In seguito, la situazione della sicurezza si è deteriorata a causa del limitato numero di soldati sul terreno e per il fatto che non siano state ricostruite una forza di polizia e un sistema giudiziario, che si sia poco investito nella ricostruzione dell’esercito nazionale ed in generale per le magre risorse rese disponibili per assicurare servizi e sicurezza ai cittadini.

Inoltre si è ignorato l’aspetto regionale del terrorismo. I rifugi sicuri dei terroristi in Pakistan sono rimasti operativi e c’è stata una mal riposta fiducia nella capacità della dittatura militare pachistana di combattere il terrorismo. Il nostro Paese è stata ulteriormente destabilizzato da due tendenze letali che si sono verificate nel paese confinante: la pachistanizzazione di Al-Qaeda e la talebanizzazione del Pakistan.

Le sue critiche riguardano tutta la coalizione internazionale?

L’intervento della NATO ha mancato di coordinamento strategico. Alcune delle forze NATO non erano preparate per operazioni anti-terrorismo. C’è stata anche una mancanza di elicotteri, di mezzi aerei, di capacità di intelligence e di unità per operazioni speciali, artiglieria di precisione e, soprattutto, di fondi per la ricostruzione. L’efficienza delle forze in campo è stata inoltre limitata dalle differanti regole d’ingaggio che ogni paese ha imposto alle sue truppe. Nel teatro di guerra afgano è venuto così a mancare un comando militare unificato ed un coordinamento di tutti gli attori civili, politici e militari sia nazionali che internazionali.

Quelli che affermano che la coalizione internazionale non sta vincendo militarmente, dovrebbero sapere che non è mai stato fatto un vero sforzo per vincere. Noi tutti abbiamo fatto ciò che potevamo con le limitate forze militari e gli scarsi fondi per la ricostruzione disponibili. Non siamo però riusciti a fare quello che era necessario per scarsità di fondi e di truppe. Oggi siamo ad un punto di svolta. Se non scegliamo la strategia giusta, rischia di diventare un punto di non ritorno.

Quale futuro spera per l’Afghanistan?

Immaginarsi un Afghanistan pluralistico, prospero ed in pace non è un sogno impossibile. È una necessità per avere pace in Afghanistan, nelle regione e nel mondo. Mi lasci essere molto chiaro su un punto: noi non vogliamo imporre all’Afghanistan una democrazia jeffersoniana – vogliamo solo evitare l’imposizione della tirannia, della dittatura e del terrore. Non vogliamo diventare il 51° stato degli Stati Uniti, ma il popolo afgano chiede pace e pluralismo. La gente afgana è forte, moderata e pragmatica e vuole fortemente una vita pacifica. Le donne afgane non hanno dimenticato il terrore dell’epoca dei talebani e non la dimenticheranno mai.

Come giudica la nuova strategia americana per l’Afghanistan?

La nuova strategia americana sarà discussa nel prossimo vertice NATO del 5 Aprile a Praga. Noi ringraziamo il presidente Obama per averci consultato ufficialmente durante la sua preparazione. A nostro parere la nuova strategia dovrebbe includere le seguenti componenti:

Surge delle truppe statunitensi;

Capacity building del governo afgano per potere eliminare la corruzione fornire adeguati servizi ai cittadini;

Eliminare le fonti per l’addestramento, l’indottrinamento e l’appoggio finanziario e logistico ai terroristi in Pakistan e nella regione;

Rendere la lotta al narcotraffico parte integrante della lotta al terrorismo;

Fissare i parametri per la riconciliazione con alcuni elementi dei talebani; 

Migliorare il coordinamento civile e militare e creare un centro di comando unificato a guida americana, ma con piena partecipazione afgana.

Siamo soddisfatti per l’invio di ulteriori 17.000 soldati in Afghanistan, specialmente per i marines che saranno inviati nel sud. Se è importante la quantità di truppe, molta attenzione dovrebbe essere data al miglioramento delle loro capacità di combattimento. I soldati americani si sono dimostrati i migliori combattenti ed i migliori partner del nostro esercito nazionale.

Lo spiegamento di nuove truppe consentirà di effettuare operazioni “chirurgiche” invece di bombardamenti aerei che causano livelli inaccettabili di perdite civili. Tuttavia, nel lungo periodo, la strategia più “sostenibile” è quella di costruire un esercito e un corpo di polizia afgani provvisti dei necessari mezzi per combattere il terrorismo.

Sta funzionando la vostra collaborazione con il governo pachistano?

Siamo coscienti di non potere conseguire dei successi in Afghanistan senza una cooperazione sincera da parte del Pakistan. Oggi, per fortuna, abbiamo degli ottimi rapporti con il nuovo governo civile del presidente Asif Ali Zardari. Le leadership dell’Afghanistan e del Pakistan non sono mai state così vicine come adesso.

Siamo convinti che il nuovo governo pachistano sia sincero nel combattere l’estremismo ed il terrorismo. Lo stesso presidente Zardari è stato vittima della violenza terrorista. Tuttavia il governo non ha la capacità di condurre questa battaglia. I militari pachistani hanno questa capacità ma non hanno l’impegno. Nonostante le atrocità commesse dagli estremisti contro i popoli afgano e pachistano, l’esercito non li considera come il principale nemico. Il nemico numero uno è sempre stato ed è l’India. Nella lotta contro l’India, gli estremisti sono considerati degli alleati. Sarà uno dei compiti della nostra politica estera cercare di aiutare il Pakistan e l’India a superare questa diffidenza reciproca.

Cosa ne pensa della proposta del presidente Obama di dialogare con i talebani?

Il nostro presidente ha commentato favorevolmente questa proposta. In effetti negli ultimi sei anni è stati già avviato un dialogo con dei singoli comandanti talebani e più di 600 comandanti talebani di medio livello hanno aderito a questa iniziativa di pace. Alcuni di loro occupano posizioni pubbliche o sono in parlamento. Tuttavia si deve determinare in modo preciso con chi vogliamo parlare e fissare i parametri della discussione.

I talebani sono politicamente divisi in tre principali gruppi: la Shura di Quetta, guidata dal Mullah Omar, la Shura di Miran Shah della famiglia Haqqani e del gruppo Shamshatoo e la Shura Bajawa del partito Hezb-e Islami di Hekmatyar. I talebani sono divisi in tre gruppi ideologici: quelli con la “T” maiuscola sono affiliati con Al-Qaeda ed alle reti terroristiche regionali ed internazionali. Contrariamente a quello che succede in Iraq, la storia di Al-Qaeda, degli Haqqani e degli Hekmatyar è caratterizzata da trenta anni di lotte comuni e cementata da matrimoni fra questi gruppi. Con questo gruppo di talebani non si può dialogare, possono solo essere sconfitti con la forza.

Il secondo gruppo è costituito da talebani di medio livello che sono dei mercenari reclutati da trafficanti di droga o da gruppi afgani che sono o contrari alle truppe internazionali oppure hanno delle dispute con il governo. Con questi gruppi ci si può riconciliare attraverso il dialogo, offrendo loro denaro o usando mezzi coercitivi.

Il terzo e più grande gruppo e costituito dai talebani con la “t” minuscola. Questi soldati a piedi sono in gran parte dei giovani afgani disoccupati, senza un’educazione ed a cui è stato fatto il lavaggio del cervello e che sono pagati 300 dollari al mese con la promessa del paradiso o di ulteriori incentivi finanziari. Questo gruppo ha bisogno di posti di lavoro e di istruzione più che di dialogo. Dobbiamo dargli lavoro e speranza.

Possiamo dunque dialogare con il secondo ed il terzo gruppo, ma, per avere speranza di successo, dobbiamo farlo da una posizione di forza ed avendo delle posizioni ferme sui diritti umani, i diritti delle donne e sulla Costituzione afgana.