L’Amazzonia allo specchio. Riflessi (e riflessioni) di una società “evoluta”
20 Febbraio 2011
Gli occhi del “nostro” mondo sono arrivati anche lì dove prima non avevano mai indagato. E sono rimasti affascinati, rapiti. Giorni fa la Bbc ha trasmesso un filmato girato nell’Amazzonia peruviana che ritrae una tribù “incontattata”, che cioè non ha mai avuto rapporti con il mondo esterno. Ripresa per la prima volta in assoluto, a un chilometro di distanza, da un aereo. Alcune capanne fra gli alberi, uomini, donne e bambini armati di arco e machete. Intorno, solo la foresta, sterminata.
Tribù che sono messe in pericolo dalla deforestazione, che le spingerebbe a scappare e a incontrare altre popolazioni sulla loro strada. E forse è proprio questa la cosa che per noi rimane più difficile da comprendere. Questi popoli sopravvivono proprio perché sono isolati. Il solo contatto con la nostra società ne provocherebbe la distruzione quasi immediata. Le nostre malattie li decimerebbero. I nostri costumi provocherebbero in loro uno shock talmente forte da annientarne le tradizioni. E noi, pur rappresentando una così terribile minaccia per loro, pur sapendo di essere molto più “evoluti”, restiamo a bocca aperta davanti allo schermo dei nostri pc e delle nostre televisioni. Così come nel filmato loro accorrono quando sentono l’aereo avvicinarsi. Il momento più intenso e significativo è tutto lì. Quando loro guardano verso la telecamera e noi, di riflesso, guardiamo loro. Il fatto che il guardarci negli occhi (se così si può dire, in questo caso) non ci lasci indifferenti, è un segnale importante.
Quanto spesso oggi fantastichiamo su forme di vita provenienti da altri pianeti per ritrovare questo genere di sensazioni? Le sensazioni che Socrate e Platone provavano nei porti delle città greche, dove arrivavano navi da ogni parte del mondo, al termine di chissà quali viaggi avventurosi e con chissà quale bagaglio di storie e di esperienze. Gli stessi luoghi che noi oggi raggiungiamo in due o tre ore di aeroplano. La verità è che abbiamo sempre amato la diversità, abbiamo sempre cercato il confronto, perché per noi è stato costruttivo, sebbene da questo sia spesso scaturito il conflitto. È così che è nata la filosofia. È così che è nato il progresso. È così che siamo nati noi.
Poi, però, le cose sono cambiate. E il confronto tra la nostra cultura (europea prima, americana poi) e le altre ha generato l’annientamento di queste ultime. Oggi sarebbe la stessa cosa con le tribù dell’Amazzonia peruviana. Anche nostro malgrado. Anche se non utilizzassimo armi. E, mentre cerchiamo gli alieni, ci rendiamo conto che gli alieni ce li abbiamo in casa. In pratica, ecco che ci ritroviamo a dover difendere quelle popolazioni da noi stessi, provando per loro una sorta di pietà, quasi di amore figliale.
Ma cos’è che amiamo di quei popoli? Forse il fatto che rappresentino il mondo dal quale abbiamo fatto tanta fatica ad uscire. Ci abbiamo messo secoli, guerre, idee e sacrifici, per diventare come siamo oggi. E adesso eccoci qui, a rimanere come disorientati davanti a queste immagini.
Noi che comunichiamo alla velocità della luce da una parte all’altra del globo. Noi che viaggiamo, guardiamo, osserviamo. Noi della società aperta, che cerchiamo continuamente il compromesso, la reciproca convenienza. Noi, col nostro denaro, il nostro progresso, la nostra democrazia e la nostra corruzione. Noi che resistiamo alle malattie, che abbiamo imparato a sconfiggerle, che viviamo fino a ottant’anni e che sembriamo non volerci rassegnare che comunque, prima o poi, di qualcosa si dovrà pur morire. Noi con i nostri lavori specializzati, le nostre lauree e le nostre carriere. Noi che conosciamo le differenze, e ci abbiamo fatto talmente tanto l’abitudine da eliminarle, pian piano. Noi che siamo convinti di aver preso la direzione giusta, perché è la storia che ce l’ha confermato. Noi che alla fine, anche se forse solo per un secondo, vorremmo essere come quelle tribù. “Incontattati”.