L’America arranca ma Capitol Hill resta pur sempre un faro di democrazia
21 Luglio 2011
Nell’afa estiva la cupola del Congresso svetta quasi come un miraggio in fondo a Pennsylvania Avenue. E’ la vera protagonista del panorama cittadino di Washington rispetto a una Casa Bianca in realtà molto più piccola, modesta e nascosta dagli alberi di quanto appaia in televisione. Di fronte il National Mall, la lunga striscia di parco affiancata da musei ed edifici governativi, che come un lungo “Corso” idealmente congiunge il Congresso con l’obelisco di Washington e il memoriale di Lincoln, nel parco sul Tidal Basin dove anche Jefferson, Roosvelt e i caduti americani delle due guerre mondiali sono ricordati dal marmo.
Quanta strada ha fatto una capitale dove due secoli fa i diplomatici europei rifiutavano di prestare servizio a causa della malaria provocata dalle paludi del fiume Potomac, e chi ci andava vestiva alla coloniale con stivali, sahariana e cappello come se si trovasse in missione in un qualche villaggio africano. Probabilmente chi ha disegnato l’architettura di Washington voleva scrollarsi di dosso questa immagine da ex colonia britannica, e dare invece l’idea di una grande repubblica ispirata ai classici greci e romani. Da qui viene l’impianto stradale ortogonale come quello del castrum latino, le colonne greche che ornano palazzi come quello del Ministero del Tesoro, e la toponomastica se è vero che Capitol Hill, sede del Congresso americano, sta per “Collina del Campidoglio”.
Intento che, grazie a un unico connubio di circostanze storiche, geografiche, culturali, nonché all’indubbia grandezza di alcuni leader americani e alla fibra del loro popolo, è oggi riuscito, tanto da colpire a prima vista chi arriva a Washington, District of Columbia – per gli americani semplicemente D.C. Andare ai National Archives, a vedere la copia originale della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana, è quasi come andare in pellegrinaggio in un moderno, laico, tempio della democrazia. Ma se dal tempio si passa all’arena dove ogni giorno la democrazia si impasta con i partiti, i deputati, le elezioni, i fondi statali e quelli privati, l’interesse pubblico e le lobby, allora il mito scolora nella realtà quotidiana, e la modesta “arte del possibile” – una delle migliori definizioni di cosa è la politica – cerca di mandare avanti il Paese.
Uno dei miti della democrazia americana è che i politici statunitensi sono giovani, e che c’è un frequente ricambio politico e generazionale. E’ vero che i presidenti americani, come i quarantenni Kennedy e Clinton, sono in media più giovani dei premier europei. Ma ciò non vale per tutti i politici: per restare nel campo democratico, basti pensare che la capogruppo alla Camera Nancy Pelosi ha 71 anni, ed è rimasta capogruppo dal 2002 a oggi nonostante le disastrose sconfitte del suo partito alle elezioni legislative del 2004 e del 2010. Cosa più interessante, l’equilibrio politico-generazionale americano può avere effetti singolari. Michael, 37 anni e capo di gabinetto di un importante esponente democratico della Camera dei rappresentanti, si lamenta di come gran parte del suo staff sia formato da ventenni che non hanno ancora un dottorato né una significativa esperienza politica e manageriale alle spalle. Eppure gli staffers hanno una responsabilità non indifferente.
Come disse un famoso presidente americano al suo ospite: “Tu pensi che sia io a comandare qui? Ti sbagli, chi comanda è colui che prepara ogni giorno la mia agenda e mi spiega chi sto per incontrare e cosa devo dire”. Battute a parte, lo staff di un rappresentante della Camera, e ancor più di un senatore che rappresenta stati con popolazione e PIL di un grande paese europeo, agisce come filtro rispetto alla moltitudine di gruppi di interesse che ogni giorno bussa alla porta di un congressmen. Gli staffers preparano inoltre briefing su una moltitudine di questioni, dalla guerra in Afghanistan alla riforma sanitaria, di cui non necessariamente hanno una buona conoscenza tecnica.
Ciò accade anche nei paesi europei, ma dato il ruolo unico degli Stati Uniti nel sistema internazionale gli effetti a cascata di un voto del Congresso americano sono molto maggiori di quelli di qualsiasi altro parlamento – basti pensare a cosa avrebbe significato per l’Europa il rigetto da parte del Senato del trattato di controllo degli armamenti nucleari firmato da Stati Uniti e Russia nel 2010. Nei pub come Hawk&Dove o nei ristoranti stile Good Stuff Eatery dove si ritrova chi bazzica la politica di Capitol Hill, scherzando si dice che i cittadini americani si preoccuperebbero molto se sapessero di essere guidati da una banda di ventenni freschi di college che la notte fanno tardi nei locali di Dupont Circle. Anche i cittadini europei se ne preoccuperebbero.
Anche il mito del cambiamento, impersonato al meglio da Obama, è in parte smentito dai numeri del Congresso. La seniority di membri del Senato, cioè gli anni in carica eletti in uno stesso collegio, è impressionante, con senatori rieletti ininterrottamente da decenni. Ciò è anche dovuto all’elevato costo della campagna elettorale, che avvantaggia chi è più in grado di raccogliere fondi tra i vari gruppi di interesse. Il senatore uscente riceve più finanziamenti da parte delle lobby interessate a influenzare la sua posizione durante la legislatura, rispetto al suo avversario che potrebbe dire la sua in Congresso solo in caso di vittoria elettorale.
La legge americana vieta ai lobbisti di versare denaro o fare regali direttamente ai parlamentari, ma permette di finanziare la loro campagna elettorale con donazioni. Mediamente partecipare a una colazione o a una cena di lavoro con un congressmen, insieme ad altri venti lobbisti, costa ad ognuno dei commensali 10.000 dollari in donazione. Considerando tre pasti al giorno, un parlamentare attivo nella fund raising – la raccolta di fondi – può arrivare a raccogliere quotidianamente 600.000 dollari, fondi dovutamente rendicontati e pubblicati online
Inoltre, nel sistema elettorale uninominale maggioritario in vigore negli Stati Uniti è molto importante come sono disegnati i collegi elettorali, sia per la Camera federale che per l’assemblea legislativa dei vari stati, dal Texas alla California. In passato i parlamenti in carica hanno disegnato i collegi in modo geograficamente non omogeneo ma ritagliandoli sugli orientamenti politici degli elettori, ad esempio unendo a serpentone quartieri o cittadine tendenzialmente repubblicane o democratiche per assicurare quel collegio al candidato repubblicano o democratico. La conseguenza è che in molti collegi non c’è partita con lo sfidante del partito minoritario, e quindi il deputato uscente vince facilmente un terzo, quarto o quinto mandato. Ad esempio in California negli ultimi 10 anni solo nel 20% dei collegi il parlamentare uscente non è stato riconfermato.
Il sistema politico americano possiede però i meccanismi interni per auto-correggersi e riformarsi, ed è in costante evoluzione. Proprio la California ha recentemente approvato una nuova mappa dei collegi disegnata da una commissione indipendente, basata su criteri demografici e geografici piuttosto che politici. Washington D.C. non sarà la luminosa “città sopra la collina” immaginata dai padri fondatori come faro di democrazia per il resto del mondo, ma una delle migliori democrazie funzionanti a disposizione nel mondo oggi risiede pur sempre a Capitol Hill. (Fine prima puntata. Continua…)