L’America aspetta Obama per sentirsi diversa e migliore
19 Gennaio 2009
Sull’autobus che mi porta a Washington da New York, in una domenica mattina gelida e nevosa, un passeggero giamaicano scopre all’improvviso di aver sbagliato destinazione. Deve andare a Philadelphia, ma non ha capito l’inglese improbabile dell’autista cinese e non è sceso alla fermata giusta. Pretende, in modo molto aggressivo, di essere portato indietro, spaventando il cinese che non capisce cosa gli viene chiesto e non si fa capire quando risponde. La contesa rischia di degenerare. Due giovani passeggeri, diretti anche loro a Washington per partecipare all’inaugurazione di Obama, intervengono, calmano entrambi i contendenti, negoziano una soluzione e risolvono il problema pacificamente. Si perde una mezz’ora, ma nessuno si lamenta. E’ questa l’America di Obama?
Forse la domanda è totalmente irrealistica. Ma viene posta. Infatti non è irrealistico registrare la sensazione diffusa, almeno tra il popolo obamiano, che l’America sia cambiata, sia diventata migliore. E’ una sensazione scaramantica, superstiziosa. La settimana scorsa, quando un aereo della US Air ha effettuato un atterraggio di fortuna sul fiume Hudson con tutti i passeggeri e l’equipaggio illesi, non pochi hanno commentato a New York: “questa è l’America di Obama”.
Il “Magico Obama”, come lo prendono in giro i repubblicani irriducibili. Sta di fatto che domani Barack Obama diventerà ufficialmente il Presidente degli Stati Uniti davanti a una folla adorante di un milione di persone, forse il numero più alto di presenze nella storia delle inaugurazioni. Il suo tasso di approvazione tra l’elettorato repubblicano, secondo un recente sondaggio del New York Times, è circa del 60%. Buonismo di marca americana?
Quando nel pomeriggio Obama si sarà insediato alla Casa Bianca, con moglie, figlie e suocera, comincerà il conto alla rovescia dei mezzibusto mediatici che guardano ai primi cento giorni della presidenza per giudicare la sua prestazione. C’è chi teme di passare per buonista e fa il cinico, promettendo che Obama, come tutti i politici, deluderà le aspettative entro i primi cento giorni. Ma non hanno fatto i conti con i sondaggi che rivelano come due terzi degli americani siano disposti ad aspettare due anni prima di fare il bilancio della presidenza Obama.
I primi cento giorni. Una scadenza arbitraria, iniziata dal Presidente Franklin Delano Roosevelt e adottata automaticamente dai presidenti successivi e ovviamente dai commentatori. E’ comprensibile che le aspettative siano altissime per Obama, il primo presidente nero della storia, eletto nel mezzo di una crisi economica senza precedenti e di una Guerra di occupazione in Iraq. E infatti lo sono, e quindi anche il timore che non le rispetti. Eccetto che Obama sta già cambiando le regole. Le previsioni sono dunque più difficili, e meno in ostaggio della banalità degli analisti televisivi.
Essendo una tra i 13 milioni di persone alle quali Barack Obama, o Michelle Obama, o Joe Biden, o Tim Kaine (il nuovo presidente del partito democratico), manda circa una email al giorno, seguo da vicino il progetto del presidente di cambiare il modo di fare politica. Internet c’entra solo come mezzo di comunicazione. Il medium, in questo caso, non è il messaggio. La rete di attivisti costruita durante la campagna elettorale oggi Obama la chiama movimento: “Organizing for America”.
La settimana scorsa il presidente ci ha chiesto di rispondere a un questionario per suggerirgli le questioni a cui dare priorità. L’altro giorno ci ha risposto con un video, che rivela le risposte – circa mezzo milione di persone hanno riempito il questionario e mandato commenti, la maggioranza sulle soluzioni da dare alla crisi economica – e invita a continuare la discussione.
Per oggi, il giorno di Martin Luther King, l’invito è di fare qualcosa per chi ha bisogno di aiuto. E domani l’America si riunirà in migliaia di case, chiese o ristoranti, per guardare in TV la cerimonia di inaugurazione. Le informazioni sull’organizzazione sono tutte disponibili via email, ma gli eventi sono basati sull’incontro faccia a faccia, hanno una radice locale, spesso di quartiere.
Con questo tipo di organizzazione Obama si è imposto sulla macchina stanca e sclerotica, ma ancora potente, del partito democratico. Ha battuto Hillary Clinton, la più formidabile rivale per la nomination, in termini di consensi e finanziamenti. Ha rinvigorito il partito tenendone saldamente in mano la leadership. Adesso intende usare le stesse risorse umane e politiche per governare l’America. E mantenere il consenso intorno alla propria leadership.
Di consenso ne ha molto bisogno perché le scelte che dovrà affrontare saranno difficili. L’inizio, a parte le superstizioni romantiche, promette bene. Obama non è ancora presidente ufficialmente, e ha già completato con grande successo la transizione. Il 70% degli Americani approva le sue nomine per il governo, tutte di gente esperta e competente. Il pacchetto di proposte per stimolare l’economia e l’occupazione è pronto. Ma la settimana scorsa l’approvazione di un ulteriore salvataggio delle banche è passata in Senato solo perché Obama stesso ha telefonato ai senatori riluttanti.
Nel prossimo futuro, di fronte alle difficoltà di prendere decisioni su questioni complesse che dividono l’America e risvegliano la partigianeria, il nuovo Presidente conta di non essere soltanto al telefono con i senatori, i congressmen e i lobbisti. L’idea è di avere accanto a sé i 13 milioni del suo movimento. E’ così amato dagli Americani che i media temono di non esserci.