L’America che conosciamo è quella di Romney
16 Dicembre 2011
Nel gelido Iowa si scalda la corsa repubblicana verso il Caucus del 3 gennaio, il primo test per capire chi sarà il prossimo sfidante di Obama. Newt Gingrich era la grande attesa di stanotte, visto il repentino vantaggio accumulato nelle ultime settimane, e non delude. Quello che dice sullo strapotere della magistratura (i giudici federali non possono sottomettere il Congresso), in Italia sarebbe bollato come sovversivo, negli Usa invece significa riconoscere che esiste una distinzione tra i poteri e va rispettata. Tutti gli altri corridori, dalla gelida Bachmann al vecchio Ron Paul, passando per il mite Romney e il più muscolare Perry, vanno dietro a Newt Skywalker, assecondandolo nel suo attacco al potere giudiziario e difendendo il ruolo e il primato della politica.
Così l’amante delle guerre stellari e della psicostoria di Asimov, l’ex speaker della Camera con il suo gesticolare arioso ed ecumenico conquista applausi scroscianti minacciando l’Iran e difendendo il Congresso dalla tempesta del Tea Party. Quello era il suo punto debole e sulle sue trascorse relazioni pericolose con i Clinton, gli Obama e la Pelosi, gli avversari lo circondano, lo stanano, vorrebbero incastrarlo, Paul e la Bachmann più di tutti gli altri, senza riuscirci fino in fondo (anzi alla fine Ron e Michelle finiscono per sbranarsi tra loro sull’Iran, ultrainterventista lei, antimilitarista lui).
Le comparse, se si può dire così, fanno la loro figura. Meglio Rick Santorum, più dinamico degli altri in politica estera, che Jon Huntsman, troppo impegnato a leggere di nascosto i suoi appunti per apparire convincente. Un po’ Big Jim il governatore Perry, squadrato e ingessato quanto la sua giacca. Comparsa non è certo Mitt Romney, il vero rivale di Newt: ha un tono di voce familiare e rassicurante, un profilo moderato che guarda al sodo, una qualche visione per l’America fondata sul progresso, sul ritorno alla indutria manifatturiera e allo sfruttamento delle grandi risorse del continente americano.
Alla fine l’impressione è la stessa che avevamo all’inizio: c’è un’estrema volatilità tra i candidati dell’Elefantino alle presidenziali. Gli aspiranti non mancano, insieme rappresentanto l’intero prisma del complicato mondo conservatore, ma solo alcuni di loro sembrano avere l’esperienza giusta per affrontare la crisi economica dell’Occidente, il ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan e il confronto con la Cina. Paul è una seria spina nel fianco per Gingrich e potrebbe avvantaggiare Romney al Caucus e nei successivi appuntamenti elettorali di gennaio. La Bachmann, che fino allo scorso agosto aveva concentrato su di sé l’attenzione dei repubblicani dello Iowa e acceso il Tea Party, oggi ne esce ulteriormente ridimensionata, troppo statica nello sguardo rivolto al pubblico.
La rosa lentamente si restringe. Newt è il passato, Reagan, l’esperienza. Romney il presente, la speranza, la voglia di fare di un americano del XXI secolo.