L’America conservatrice ha rifiutato le ideologie della vecchia Europa
07 Luglio 2010
Non tutto negli Stati Uniti è "Tea Party", non tutta la Destra americana è protesta fiscale. Le radici dell’identità conservatrice sono ovviamente più vaste, più antiche, più profonde. Risalgono, almeno nella formulazione contemporanea di quel fenomeno, ai drammi del secondo dopoguerra, a metà esatta del Novecento, quando gli statunitensi si risvegliarono da un lungo torpore, rotto a tratti solo da qualche voce pionieristica di protesta epperò piuttosto solitaria quando non addirittura isolata, domandandosi a che punto fosse la notte.
Dirsi "conservatori" era allora assolutamente fuori luogo, e chi invece prese a farlo, sprezzante del giudizio degli avversari e della temperie culturale del momento, lo fece con coraggio davvero senza pari. Il conservatorismo nacque allora come una operazione di riappropriazione del senso di sé da parte di una determinata élite e in breve tempo si trasformò in una incisiva domanda di significato a proposito dell’intera esperienza storica nordamericana. Insomma, il conservatorismo negli Stati Uniti è ed è sempre stato anzitutto e soprattutto un esercizio d’indagine sull’ "essere americani", che quasi automaticamente ha dunque comportato una (ri)presa di coscienza della portata occidentale di tale investigazione, dentro la quale molto ha pesato, e sempre pesa, la "questione europea". Quanto, cioè, "sono europei" gli Stati Uniti? E a quali condizioni, e in che modo, e perché?
Domande assolutamente ancora aperte, queste, anzi difficilissime da chiudere una volta per tutte con risposte univoche e definitive; ma il punto non è questo. Il punto è che quelle domande il conservatorismo nordamericano se le pone costantemente: in certi suoi comparti culturalmente più raffinati lo fa con consapevolezza, in altri, grassroots, no, ma la questione nodale è che quella domanda resta, spinge, preme, e che la risposta a essa non viene mai elusa, anche se a volte subisce qualche procrastinazione.
La domanda, infatti, come ovviamente la risposta, è di quelle serie. Interrogarsi sulla misura e sul senso dell’ "europeità" degli Stati Uniti significa infatti cercare di comprendere davvero e con precisione quali sono le filiere che di quel mondo hanno generato la storia, quali le genealogie culturali che ne determinano la coscienza, quali i meccanismi che ne decidono l’identità, quali, insomma, le radici autentiche. Perché dire Europa è dire un "continente sui generis", giacché sostanzialmente impossibile da determinare geograficamente (lasciamo stare l’insulsa velleità di presunte determinazioni e di presunti determinismi "razziali"), ovvero un "continente di cultura", e "formato esportazione", che come tale si sa dove inizia ma non dove finisce…
Negli Stati Uniti del conservatorismo queste riflessioni, anche se talora in forma acerba o non tematizzata, sono sempre il sostrato oggettivo di qualsiasi elaborazione ulteriore. Ora, negli Stati Uniti dove non tutta la Destra è solo "Tea Party", ma dove i "Tea Party" rendono oggi tangibile e dirompente una cultura conservatrice antica e radicata, prolifera una vita intellettuale ancora, nonostante tutto, praticamente tabù alle nostre latitudini.
Là esiste per esempio un periodico quale il trimestrale Modern Age: A Quarterly Review che da noi ce lo sogniamo a occhi aperti. Fu fondato nel 1957 da Russell Kirk (1918-1994), il padre della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento, uno di quei coraggiosi pionieri di cui sopra, anzi, se non addirittura il primo, certamente il più noto e autorevole, che lo diresse per due anni onde poi decidere di passarlo ad altri. Doveva chiamarsi The Conservative Review, ma si optò per l’ironia sottile del titolo attuale. Oggi esce sotto gli auspici di uno dei think tank educativi più intelligenti di tutti gli Stati Uniti, l’Intercollegiate Studies Institute, diretto da T. Kenneth Cribb jr. a Wilmington, nel Delaware (della serie: non conta proprio stare nella Grande Mela per essere seri e incisivi, anzi). In mezzo secolo e più di vita Modern Age è cresciuto in sapienza e sapidità, e oggi viene unanimemente considerato lo strumento di riflessione migliore di tutto il conservatorismo statunitense. Dalle sue pagine sono passati praticamente tutti, grandi e piccoli, i nomi che contano, il che significa anche gli autori “che hanno qualcosa di non banale da dire” al di là delle luci della ribalta sovente truffaldine. Su Modern Age sono stati ospitati i simposi culturali più seri, i contributi più intriganti, le meditazioni più intelligenti.
Ebbene, sul fascicolo più recente di Modern Age il direttore Robert V. Young (docente di Letteratura rinascimentale e di Critica letteraria nella Facoltà d’Inglese della North Carolina State University a Raleigh) propone The Authetic Reactionary, la traduzione in inglese di un saggio provocante e provocatorio qual è El reaccionario auténtico (pubblicato a Medellín sulla Revista Universidad de Antioquia, n. 240, aprile-giugno 1995, come El reaccionario auténtico. Un ensayo inédito) di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), a suo tempo offerto in lingua italiana dal periodico Cristianità da Giovanni Cantoni, suo direttore, fra i primi, chez nous, ad accorgersi dell’imponente presenza del pensatore colombiano.
Autore decisivo, oramai piuttosto noto anche in Italia, strattonato, purtroppo, per la giacchetta da troppi figuri, Gómez Dávila resta fondamentale per ragionare di quel "canone comune" da cui sono qui partito, cioè quanto e a quali condizioni le Americhe sono e restano "europee" dentro la koinè occidentale – magari pure contro il resto del mondo…
Quel suo saggio daviliano la dice lunga sui lidi raggiunti dal conservatorismo statunitense.
Un tempo, in America, ma anche altrove, "reazionario" era termine off-limits. Nessuno se ne fregiava, spaventava, gli americani facevano di tutto per distinguere sé, i conservatori, dagli "altri", i reazionari intesi come passatisti e nostalgici. Ma non è più così. Oltre a fornire un ponte sicurissimo fra Americhe ed Europa, ben oltre le ataviche e reciproche diffidenze fra americani del nord e americani del sud, l’americano del sud Gómez Dávila "sdogana" per tutti un termine carico pregnante, e gli americani del nord se ne accorgono facendolo proprio dopo che esso è risorto Europa. Anzi mettendolo accanto alla formula Repubblicano non basta, siamo conservatori, che viene usato a mo’ di slogan oggi da un certo nuovo ceto politico, e a quell’altro termine, sempre osteggiato ma profondissimo, che è "contro-rivoluzione", sbarcato oggi Oltreoceano proprio a opera delle nuove generazioni dei "Tea Party".
Il che ci riporta a casa. Non tutto negli Stati Uniti è "Tea Party", non tutta la Destra americana è protesta fiscale. Forse. Certo è che la terminologia meno prona ai miti del politicamente corretto e coraggiosa al punto di rifiutare in blocco il gergo usurato della politica odierna passa proprio attraverso i "Tea Party" e la loro rivolta anzitutto, non unicamente, fiscale. Ma soprattutto i "Tea Party" stanno inconsapevolmente propiziando la scoperta di un lessico nuovo che veicola una cultura enorme: il rifiuto netto dell’ideologismo di matrice illuministico-giacobina che a lungo ha dato prova di sé in Occidente, e la cosa non è stata granché. Forse davvero davanti a una nuova nascita. Antica, antichissima.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e Direttore del Centro Studi Russell Kirk