L’America è pronta a trattare con i Talebani se disarmeranno
31 Ottobre 2008
Dopo un lungo periodo di incomprensioni, Afghanistan e Pakistan trovano un punto di incontro e decidono di giocarsi la carta della riconciliazione nazionale con l’insorgenza islamista per uscire dallo stato di instabilità in cui versano ormai da sette anni, da quando cioè gli Stati Uniti hanno lanciato la loro guerra al terrore internazionale e posto fine al governo oscurantista dei talebani a Kabul.
All’inizio di questa inizio settimana, si è riunita a Islamabad una ‘mini-jirga’ (tradizionale consiglio delle tribù pashtun), alla quale hanno partecipato autorità politiche e leader tribali di entrambi i Paesi. Dalle discussioni è emersa la comune volontà di cercare un compromesso con i gruppi islamisti, a patto che questi riconoscano le rispettive carte costituzionali. I membri della mini-jirga hanno tenuto a precisare che l’apertura al dialogo non è estesa ad al-Qaeda.
I due capi-delegazione, Owais Ahmed Ghani (attuale governatore della North-West Frontier Province) per il Pakistan e Abdullah Abdullah (ex ministro degli Esteri di Kabul) per l’Afghanistan, hanno ricevuto dalla jirga l’incarico di contattare – entro due o tre mesi – i militanti talebani per avviare le trattative di pace. A detta dei due, un ruolo di rilievo nel processo sarà affidato agli esponenti religiosi: “Le pratiche, le tradizioni e i costumi islamici saranno strumenti essenziali per pacificare i due Paesi”. Una seconda mini-jirga è stata poi programmata per gennaio a Kabul, allo scopo di valutare l’andamento dei negoziati.
Leader afghani e pakistani avevano trovato un accordo per aprire negoziati con i talebani già lo scorso anno a Kabul, in occasione della ‘grande-jirga’. La riunione di Islamabad si può considerare come la logica prosecuzione di quella tenuta nella capitale afghana. Il processo ha subito un forte rallentamento in seguito al deteriorarsi delle condizioni di sicurezza in Afghanistan e Pakistan nell’ultimo anno. Le visioni divergenti dei due governi su come contrastare le milizie fondamentaliste, inoltre, hanno contribuito al prolungamento dello stallo. Che qualcosa stesse mutando nel teatro afghano e in quello pakistano si era già capito lo scorso mese, quando hanno cominciato a trapelare indiscrezioni sull’avvio di un processo di riconciliazione sponsorizzato dall’Arabia Saudita.
La novità più importante degli ultimi giorni è però l’apertura (condizionata) degli Stati Uniti alla prospettiva di un negoziato in Afghanistan. A darne notizia è stato martedì il "Wall Street Journal", secondo cui l’amministrazione Bush sarebbe pronta ad avviare colloqui diretti con i quadri medio-bassi dell’insorgenza talebana, a condizione che questi abbandonino prima le armi. Su questo punto, però, la mini-jirga di Islamabad non ha espresso una posizione chiara, tanto che nel documento finale dei suoi lavori non vi è alcun accenno alla questione del disarmo. Osservatori in Pakistan e Afghanistan dubitano che le tribù Pashtun rinunceranno di buon grado alle proprie armi: non è nella loro tradizione.
Fonti anonime della Casa Bianca e del Pentagono hanno rivelato che, in base alla nuova strategia (al momento, in realtà, una semplice bozza), Washington parteciperà direttamente alle discussioni con i talebani, ma il negoziato sarà condotto formalmente dal governo afghano. Dalla trattativa rimarrebbero esclusi gli alti comandi degli ‘studenti di Allah’ e al-Qaeda. Gli Usa vogliono convincere i militanti a rinunciare alla lotta armata, a partecipare al processo politico e a scacciare i miliziani stranieri da Afghanistan e Pakistan.
Il problema per l’amministrazione Bush è capire cosa si può offrire loro in cambio: riconoscimento politico, un calendario per il ritiro delle truppe straniere, amnistia generale e liberazione dei prigionieri sono le richieste che probabilmente arriveranno sul tavolo del presidente americano (o del suo successore). Per favorire i contatti con l’universo islamista afghano e pakistano,
L’idea di colloqui diretti con i talebani avrebbe ricevuto il sostegno anche del generale David Petraeus, che nei prossimi giorni assumerà il comando del Centcom (Central Command). In fondo, si tratterebbe di una versione riadattata della tattica utilizzata in Iraq: incentivare le tribù sunnite per convincerle a schierarsi al fianco degli Usa e del governo iracheno nel combattere la succursale mesopotamica di al-Qaeda. Petraeus ammette che l’Afghanistan non è l’Iraq, e che il quadro etnico, politico e religioso della terra dei mujahidden è forse più complesso di quello esistente lungo le rive del Tigri e dell’Eufrate. Per l’ex comandante delle forze americane in Iraq, però, è anche vero che le guerre di counter-insurgency difficilmente si concludono con un chiaro vincitore.
I fattori che hanno spinto Washington a considerare un cambio di strategia in Afghanistan sono diversi: l’altalenante andamento delle operazioni belliche, con i talebani che continuano a guadagnare terreno; la riottosità degli alleati a rimpolpare le fila dei propri contingenti; il drammatico calo dei consensi interni di cui gode il presidente afghano Hamid Karzai; la crisi finanziaria globale e i problemi che ne stanno derivando per l’economia americana; la crescente instabilità geopolitica nella regione, dove l’Iran cerca di ritagliarsi un suo ruolo, la tensione tra India e Pakistan resta alta e
Fonti giornalistiche in Pakistan affermano che il governo americano e quello pakistano mantengono ancora in piedi l’opzione militare (gli Usa sono pronti a inviare altri 12 mila soldati in Afghanistan) per dividere il fronte dell’insorgenza islamista. In questa ottica, gli sforzi di cooptazione e integrazione dell’ala moderata della galassia talebana procederebbero di pari passo con la continuazione di una pesante campagna militare contro gli oltranzisti. Lo dimostrerebbe l’uccisione di Moroccan Khalid Habib, capo di al-Qaeda in Pakistan, colpito la scorsa settimana da un drone americano mentre si trovava all’interno del suo rifugio nel Sud Waziristan. La nota ufficiale con cui il governo di Yusuf Raza Gilani ha intimato mercoledì agli Usa di arrestare immediatamente la campagna missilistica contro i presunti covi dei militanti islamisti in territorio pakistano, rientrerebbe dunque nel solito gioco delle parti tra Washington e Islamabad.
Per molti, tra cui esponenti talebani contattati da "Asia Times", il processo di riconciliazione in corso non avrà futuro, in quanto si rivolge solo a una parte della militanza fondamentalista, oltretutto la meno importante: “Dozzine di talebani collaborano già da tempo con il governo afghano, persino Mullah Abdul Salam Rocketti, un ex comandante, ma la sicurezza in Afghanistan non è migliorata affatto”. L’iniziativa saudita, ad esempio, sarebbe naufragata sul nascere proprio per aver escluso dal dialogo i principali comandanti talebani e un signore della guerra del calibro di Gulbuddin Hekmatyar (capo del gruppo "Hizb-e- Islami").
Abdul Hadi Argundwal (leader del gruppo politico Hizb-e-Islami Afghanistan) e Hamid Gul (capo dell’Isi, i servizi segreti pakistani, a fine anni Ottanta) lo hanno detto chiaramente: “Agli incontri di