L’America vota le sanzioni contro l’Iran ma non rinuncia a negoziare col male

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L’America vota le sanzioni contro l’Iran ma non rinuncia a negoziare col male

10 Giugno 2010

Il segretario di stato Clinton e l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Susan Rice, avevano fama di falchetti democratici. Ieri però, dopo il voto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulle sanzioni contro l’Iran, hanno commentato che ora, se vuole, Teheran può tornare a negoziare con gli Usa. Atteggiamento ondivago, simile a quello del “gruppo di Vienna” (Francia, Russia, Stati Uniti + AIEA) i quali, pur avanzando seri “dubbi” sull’accordo raggiunto il mese scorso fra Turchia, Brasile e Iran sullo scambio di materiale radioattivo, hanno comunque fatto sapere che non ci sarà un “rifiuto netto” del piano. Giustamente, votate le sanzioni, il Presidente brasiliano Lula ha commentato "E’ una vittoria di Pirro, che indebolisce il Consiglio di sicurezza dell’Onu", chiedendosi come mai non si sia scelto di dialogare ("tranquillamente") con l’Iran.

Se gli Usa e le altre potenze del Consiglio di Sicurezza vogliono incassare il risultato di una punizione internazionale ai danni della mullocrazia perché poi nello stesso tempo continuano a tendere la mano ad Ahmadinejad con dichiarazioni concilianti? L’effetto è un po’ spaesante. Tanto più che le sanzioni non saranno proprio quel che si dice una manna dal cielo per gli iraniani, come lamentano, all’unisono, un editoriale dell’obamiano Huffington Post e il premier Putin (“le sanzioni non devono essere eccessive”, ha detto il russo dopo che Ahmadinejad gliene aveva cantate quattro). Se l’obiettivo è colpire gli interessi iraniani, e sempre che le misure prese per indebolirli si rivelino efficaci, tanto vale farlo senza aspettarsi chissa quali aperture che non ci sono.

La bozza votata dal Consiglio di Sicurezza, se applicata senza infingimenti, potrebbe ottenere dei risultati. Oltre al congelamento dei beni e al divieto di spostamento inflitti al capo della agenzia atomica iraniana, la bozza colpisce aziende in mano ai Guardiani della Rivoluzione e altre della Compagnia Marittima della Repubblica Islamica. E’ previsto un embargo delle armi pesanti, carri armati e sistemi missilistici, il divieto di investire in attività utili al processo nucleare come le miniere di uranio, e infine la possibilità di ispezionare in mare i cargo: le navi iraniane comunque tendono ad aggirare i controlli cambiando rapidamente bandiera e padrone, grazie a un complicato giro di prestanome. I materiali bellici e radioattivi, nello stesso modo, sfuggono all’occhio dei controllori, anche grazie alla complicità delle aziende occidentali, e con il tacito accordo delle autorità portuali che alla fine permettono il traffico in uscita e in entrata da Teheran.

Ieri l’AIEA ha diffuso una mappa del nucleare iraniano, dalle miniere di uranio a Saghand (utili a produrre lo yellowcake, l’ossido di uranio), all’impianto di Isfahan (dove l’ossido di uranio viene trasformato in gas, a sua volta immesso nelle centrifughe per l’arricchimento) e di Natanz (può ospitare fino a 50.000 centrifughe). Un altro impianto di arricchimento in costruzione è a QOM, situato nella cavità di una montagna, dalle dimensioni giuste per un uso militare. C’è poi il progetto della centrale di Bushehr, sul Golfo Persico, dove i lavori sono ripresi dalla metà degli anni Novanta con l’aiuto della Russia; secondo Mosca, la centrale dovrebbe essere inaugurata il prossimo agosto. Infine il reattore di Arak, che preoccupa Usa, Europa ed AIEA, e che anch’esso dovrebbe servire per la costruzione della atomica iraniana.