L’antipolitica si nutre solo di moralismo
02 Ottobre 2007
Spesso la polemica contro i privilegi degli uomini
politici non tiene conto dei dati di fatto e confonde vicende che, inquadrate
in una corretta prospettiva cronologica (non diciamo storica) o riportate a una
più ragionata considerazione, assumono un ben diverso significato.
Si prenda, ad esempio, la ricorrente denuncia contro la
gerontocrazia imperante nel mondo politico. Un mondo composto, secondo la
vulgata imperante, da politici vecchi e incartapecoriti. A parte l’ovvia
osservazione che non necessariamente la gioventù è sintomo di maggiore capacità
o efficienza, per smentire questo tenace luogo comune basta sfogliare
un’indagine pubblicata recentemente. Stando ai dati raccolti da un équipe
diretta dal professor Carlo Carboni (Élites e classi dirigenti,
Roma-Bari, Laterza, 2007 pp. 164, € 10,00) fra le élite dirigenti italiane
quella politica è la meno anziana (di circa dieci anni). Perciò, quando si
abbandona la lamentazione moralistica e si guardano i numeri si scopre che la
gerontocrazia alligna assai meno nel mondo politico di quanto non avvenga in
altri settori chiave (scienza, amministrazione, imprenditoria), a dimostrazione
che la fine della prima repubblica ha consentito, bene o male, un deciso
rinnovamento.
Un discorso analogo può valere per un altro recentissimo
episodio, la notizia, divulgata da “Italia Oggi”, dei vitalizi
concessi a quattro ex-parlamentari radicali rimasti in carica pochi giorni o
addirittura poche ore. La notizia suona clamorosa, ma si tratta di un clamore
postumo, per così dire. Queste disposizioni valevano per il passato, ma oggi
episodi come questo non sono più possibili. In sostanza, in questo caso la
denuncia dell’abuso avviene a futura memoria, perché l’abuso è già, da tempo,
sanato. D’altronde, se la si esamina più nel dettaglio, la faccenda svela un
risvolto ancora più paradossale. I protagonisti di questa vicenda non sono
politici di professione, ma svolgono varie attività (avvocato, professore,
libraio). Si tratta di persone che in passato hanno promosso o sono state
vicine a campagne d’opinione animate dal partito di Pannella, ma che non hanno
voluto impegnarsi per la vita in politica. Così, dopo aver accettato una
candidatura in parlamento per non sottrarsi all’impegno profuso, e magari dopo
aver scoperto di aver preso più voti del previsto, hanno deciso di dimettersi
subito. Insomma, i quattro titolari del vitalizio sono colpevoli di non aver
voluto fare parte stabilmente della “casta”.
Come si vede, ragionare per categorie preconcette non
aiuta molto. Quest’episodio invece va inquadrato nel contesto storico suo
proprio, quello del regime partitocratico della prima repubblica. Il sistema
consociativo allora in vigore prevedeva forme di spartizione concordate fra
maggioranza e opposizione. Fra di queste vi erano i vitalizi dei parlamentari.
Con due legislature si aveva diritto a un vitalizio più che ragguardevole. Il
partito che usufruiva maggiormente di questo privilegio era il Pci. I
parlamentari comunisti conoscevano un ricambio di molto superiore a quello
degli altri partiti, oltre il 50%. A ruotare, però, non erano i dirigenti più
in vista, ma solo gli esponenti di minore rilievo, quelli che in altri partiti
erano chiamati i peones, ma nel Pci erano di solito funzionari di
partito. Questa rotazione, perseguita scientificamente, consentiva di scaricare
sulle casse del parlamento (cioè pubbliche) buona parte delle spese
previdenziali, che servivano per un apparato assai più pesante rispetto alle
altre formazioni politiche. La rotazione programmata dei funzionari di partito
medio-alti in parlamento (il diritto a due legislature spettava da
vice-segretario di federazione in su, se non andiamo errati) evitava onerosi
versamenti all’Inps. Insomma, una variante soft della tattica leninista
di servirsi in modo spregiudicato delle contraddizioni dell’avversario storico.
Si utilizzava il privilegio “borghese” per rafforzare il partito
della classe operaia.
Naturalmente di questo privilegio usufruivano tutti i
partiti, anche le formazioni minori. Partiti di opinione, nei quali più
facilmente potevano trovarsi candidati atipici. In sostanza, l’episodio
denunciato da “Italia Oggi” non insegna nulla sui privilegi della
“casta” dei politici di oggi, ma dà materia di riflettere su che
cos’era la prima repubblica. Un regime nel quale la morfologia partitocratica
permeava così fortemente la vita delle istituzioni, da prevedere la
distribuzione di prebende impensate a chiunque si trovasse a entrarvi in
contatto.