L’arresto di Manafort e il Russiagate, un boomerang contro gli stessi democratici?

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L’arresto di Manafort e il Russiagate, un boomerang contro gli stessi democratici?

02 Novembre 2017

Occhio che questa storia di Paul Manafort – il lobbista e consulente politico americano per qualche mese a capo della campagna elettorale di Donald Trump, che nei giorni scorsi si è costituito all’Fbi perché implicato nel Russiagate (il presunto scandalo sulle influenza russe nella vita politica Usa) – rischia di trasformarsi in un altro boomerang per i democratici clintoniani e per tutto il sistema antitrumpista.

Dopo una prima ondata di titoli dei giornaloni nostrani e americani sull’arresto di Manafort come testa d’ariete per arrivare all’impeachment di Trump (l’indagine è quella portata avanti dal procuratore speciale Mueller), e altri titoli sulla Casa Bianca spaventata dai segreti custoditi dal lobbista, qualche ora fa una rivista da sempre attenta alle cose estere e non certo filotrumpista come l’italiana Internazionale ha scritto “Trump resta fuori dal Russiagate”. Ma come? Trump non era il burattino di Putin e di Julian Assange? Adesso vien fuori che Trump non c’entra niente col Russiagate e i cronisti di Repubblica, stupefatti, scoprono che Joseph Mifsud, il supposto mediatore tra i russi e il consigliere trumpiano Papadopoulos, “è clintoniano e di sinistra”, e che il capogruppo del partito socialista europeo Gianni Pittella commenta “Joseph è un mio caro amico, non posso crederlo coinvolto nel Russiagate”. 

Noi l’abbiamo già scritto un sacco di volte dai tempi della campagna elettorale: clintoniani e repubblicani antitrump ci hanno provato a liberarsi del presidente, prima e dopo la sua elezione, ma il coltello gli si ritorce puntualmente contro. Prima di essere reclutato per qualche tempo da Trump, infatti, Manafort è stato al soldo dei democrats e dei repubblicani, insomma è uomo di quell’establishment che non ha mai sopportato il nuovo presidente. E che adesso rischia di ritrovarsi, l’establishment, con l’ennesima patata bollente tra le mani.

Altro che braccio destro di Trump! Manafort sarebbe collegato, secondo quanto emerge dalle indagini, a Tony Podesta, anche lui lobbista top, vicino al partito di Obama e di Hillary. Tony è il fratello dell’altro Podesta, il più celebre John, a capo della campagna clintoniana e di casa nelle fondazioni e centri di ricerca obamiani. John ce lo ricordiamo tutti la notte della sconfitta della Clinton, ebbe il coraggio di dire ai militanti democratici andate a dormire che domattina, vedrete, avrà vinto Hillary, quando invece era già chiaro da ore che a trionfare era stato Trump.

John Podesta all’epoca era già bello che screditato; prima della notte elettorale, il braccio destro della Clinton era rimasto coinvolto in uno dei tanti scandali denunciati da Wikileaks sugli scheletri nell’armadio dei democratici, i “Podesta file” (vi ricordate gli scoop di Project Veritas?). Venne fuori anche la storia dai tratti vagamente macabri di un Podesta che invitava l’altro per email a un party di “spirit cooking”, cucina spiritica, a base di performance ‘artistiche’ neosataniste, che per decenza evitiamo di ricordarvi nei dettagli.

Inquadrati i due personaggi, arriviamo al sodo. E il sodo è che in questi giorni, in contemporanea con l’arresto di Manafort, il signor Tony Podesta si è dimesso dalla società che gestiva. Secondo il Guardian, altro giornale che non ama certo Trump, Tony sarebbe collegato via Manafort a quel capolavoro obamiano della “primavera arancione” ucraina, quando, come con le fallite primavere arabe, si pensava di rovesciare governi scomodi per gli Usa lavorando “stay behind”, dietro le quinte. Primavere che sono puntualmente andate a finire male, vedi disastri in Medio Oriente e guerra in Ucraina.

Bene, se Podesta (Tony) si dimette vuol dire che in casa democratica sta scoppiando il panico, e che, ipotizziamo, un fratello fa un passo indietro per preservare l’altro (John) ed evitare che si arrivi su, su magari fino a Hillary. Anche stavolta giornaloni e media compiacenti cercano di far sprofondare Trump nelle sabbie mobili del Russiagate ma a quanto pare anche stavolta chi rischia di finire affogato davvero è il clan democratico, la ormai sempre più impresentabile Hillary.

Che avrà pure scritto un libro dove sogna ancora la rivincita, ma adesso ha un problema molto più grande, e cioè che lo stesso establishment di cui è espressione, le forze politiche, economiche, mediatiche, che la sponsorizzavano, potrebbero di colpo farle il vuoto attorno, a lei come a tutta la cricca risucchiata dal Russiagate. Obama compreso, il presidente che a ridosso del voto alle presidenziali Usa, per primo, diede credito alle fake news sugli hacker russi quando invece, la storia insegna, chi ha contribuito a creare davvero caos è stato Obama con la sua fallimentare politica estera, insieme alla Clinton, ai Podesta, ai Manafort, laggiù in Ucraina.