Lasciare l’Afghanistan si può ma prima di una tempistica serve una strategia
07 Luglio 2011
Il ritiro statunitense dall’Afghanistan è iniziato in Luglio e continuerà fino al 2014. Mentre i consiglieri militari del presidente Obama non si sono ancora degnati di effettuare le proprie raccomandazioni sulla programmazione in uscita dall’Afghanistan, aumentano le pressioni per accelerare ulteriormente il processo.
I sondaggi mostrano che il 70% degli americani dovrebbero ritirarsi significativamente entro la fine di quest’estate. Di fatto, alcuni sono perfino arrivati a sostenere che l’improvvisa eliminazione di Osama bin Laden abbia costituito una sorta di dichiarazione di “missione compiuta” tale da comportare un immediato ritiro. Altri ancora vogliono incominciare a risparmiare quei 2 miliardi di dollari a settimana che costa la guerra in Afghanistan e riutilizzare queste risorse il prima possibile per sostenere la nostra ancora arrancante economia.
Qualunque tabella di marcia – come la si voglia accelerata o in qualsiasi altro modo – deve essere parte di una exit strategy. E una exit strategy deve assicurare un consolidamento dei nostri risultati senza lasciare spazio per un conflitto generalizzato. Le risposte a tre domande basiche possono essere d’aiuto a definire questa strategia: la vittoria è raggiungibile? Un accordo di pace è possibile? Una pace sostenibile è davvero possibile?
La vittoria è raggiungibile? Sì, siamo vicini ma non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo. La vittoria in Afghanistan può essere definita come la blindatura di un governo secolarizzato e sicuro che neghi un rifugio sicuro agli estremisti islamici e che assicuri il rispetto dei diritti umani, in particolare per le donne. Una certa vittoria significa la capacità degli afghani di garantire la sicurezza del loro paese.
I comandanti statunitensi sul terreno riportano che l’esercito e le forze di sicurezza afghane hanno fatto significativi progressi grazie all’addestramento che è stato loro offerto negli anni ma rimane ancora una sfida da vincere completamente. Solo poche settimane fa, la città di Herat è stato il teatro di due attacchi talebani contro la Nato e obiettivi civili che hanno fatto 5 morti e 30 feriti.
Quest’attacco si è consumato lontano dalle tipiche zone di influenza talebane e ciò dimostra che esiste un urgente bisogno di fare in modo che – visto che le truppe statunitensi inizieranno a cedere responsabilità e controllo in materia di sicurezza su un’area pari a un quarto del paese che conta nel suo insieme 26 milioni di abitanti – l’esercito nazionale e le forze di sicurezza afghane siano ben reclutate, ben addestrate, e equipaggiate e messe in condizione di poter usufruire di supporto esterno se necessario.
Sarebbe bene investire più tempo e un numero più significativo di addestratori e ridefinire benchmark misurabili e realistici piuttosto che accelerare un processo di ritiro su larga scala che lasci buchi troppo grossi in materia di capacità di sicurezza.
Un accordo di pace è possibile? Sì, ma richiede tempo, partecipazione regionale, e grandi bastoni e carote, di cui disponiamo. Il principale obiettivo di qualsiasi accordo è una stabile e reale fine delle ostilità in Afghanistan. Ma lo stesso Afghanistan è parte di una regione più grande. Accordi duraturi possono essere raggiunti per tappe, prima di tutto concentrandosi su un accordo tra il governo Karzai, i signori della guerra locali e i talebani, che serva gli interessi anche dei paesi vicini della regione. I talebani rinunceranno probabilmente alla violenza in cambio di una partecipazione legittima nel governo di Karzai e un completo ritiro statunitense.
Ironicamente, questa potrebbe essere la parte più semplice. Infatti anche il Pachistan dovrà raggiungere un accordo con i talebani per paura che un cessate il fuoco in Afghanistan spinga i combattenti talebani in una sforzo bellico con l’obietivo di destabilizzare lo stesso Pachistan. La posizione pachistana potrebbe essere plasmata dalla visione nel dopo-guerra della Cina. Con il suo insaziabile appetito per le risorse naturali e la presenza massiccia in investimenti diretti esteri, la Cina potrebbe proporsi come alternativa alla presenza statunitense nella regione, come risultato di un genuino interesse per la pace e la stabilità.
La Russia, l’Iran, Iraq e l’Arabia Saudita sono tutte preoccupate sull’esito dell’accordo con i talebani che, qualora dovesse essere negativo, potrebbe far ricadere tutte queste nazioni nella brutta abitudine di sostenere fazioni rivali su antiche faglie etniche e tribali. Fortunatamente, o purtroppo, ciò che ha più peso per questi attori regionali è il livello di influenza americana (per esempio il numero delle sue truppe) che rimarrà nella regione dopo l’uscita dal teatro operativo.
Ed è qui che si misura le leve di cui dispongono gli Stati Uniti nella direzione di una soluzione del problema – il ritiro è allo stesso tempo un bastone e una carota, ove la promessa di un totale ritiro rappresenta la carota e ove l’abilità di rendere la tabella di marcia flessibile ai vari stadi del processo di soluzione rappresenta invece il bastone. Per intenderci, se acceleri il ritiro, perdi l’opzione del bastone.
Una pace sostenibile è davvero possibile? Sì, ma solo con efficaci meccanismi militari e diplomatici. Nella sua storia la nazione afghana si definisce prima di tutto in opposizione alle forze di occupazione. Storicamente una volta ritirato l’invasore, la politica afghana è tornata a essere dominata da logiche di conflitto per il controllo del territorio e per l’influenza sulle persone attraverso i vari gruppi tribali.
Per questo, qualsiasi intoppo nel far rispettare la pace significa anche non far mancare la spazio per immaginare l’avverarsi di un conflitto futuro e potenzialmente più ampio. Anche la men che minima percezione di sconfitta darebbe spazio ovunque a focolari jihadisti e anti-americani. Una conferma di ciò arriva dalle dichiarazioni effettuate a negoziazioni non ancora iniziate dal leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, il quale ha detto del capo talebano Mullah Mohammad Omar: “Gli abbiamo promesso obbedienza nella jihad per Allah e nell’imposizione della sharia”. Un conflitto più ampio che coivolga terroristi e elementi jihadisti minaccerebbe la sicurezza dei vicini dell’Afghanistan come la Russia, la Cina, e l’Iran, e potrebbe rischiare di coinvolgere l’India nucleare e un già instabile Pachistan.
E’ per questa ragione che qualsiasi soluzione negoziale con i talebani deve essere promossa su basi di tolleranza zero al terrorismo, al jihad e all’imposizione della sharia. Dovrebbe inoltre essere accompagnata da sforzi multilaterali di lungo periodo che definiscano l’Afghanistan come un permanente dossied di sicurezza internazionale. Solo un meccanismo internazionale che coinvolga nazioni legate da comuni interessi di sicurezza sarà in grado di metter in pratica qualsiasi accordo sul futuro dell’Afghanistan. Questo meccanismo dovrebbe assumere la forma di una piccola Nato con un piccolo contingente di truppe e fondi, accando a uno di truppe statunitensi con ben definite regole di ingaggio e una conferenza permanente di sicurezza regionale. E se possibile tutt’e tre contemporaneamente.
Henry Kissinger ha recentemente scritto: “Il ruolo dell’America in Afghanistan è ormai finito come lo è stato nelle tre guerre che gli Stati Uniti hanno combattuto dalla fine della seconda guerra mondiale in poi: un consenso generalizzato perché vi entrassimo, una crescente disilussione com passare del tempo, che sfuma in un intenso dibattito nazionale su come definire una strategia d’uscita con una particolare enfasi sulla parola uscita piuttosto che sulla parola strategia”.
Ponendosi le domande giuste e dando priorità alla strategia prima dell’uscita, gli Stati Uniti potrebbero avere l’opportunità di esercitare una leadership, di raggiungere la vittoria e di definire una soluzione duratura su un dossier importante di sicurezza globale.
Richard Greco ha servito come Assistant Secretary of the Navy e come White House fellow tra il 2002 e il 2006. E’ presidente del Filangieri Capital Partners, una banca d’affari di base a New York
Tratto dal mensile italiano di politica internazionale Longitude
Traduzione di Edoardo Ferrazzani