L’assurda sentenza del Tribunale di Bologna sul “nuovo” art. 18
29 Ottobre 2012
Primo k.o. per la riforma dei licenziamenti targata Fornero. Bastano le scuse del lavoratore a rendere «insussistente il fatto contestato» alla base del licenziamento disciplinare, insussistenza che consente al giudice di applicare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, in luogo di un indennizzo economico. Lo stabilisce il Tribunale di Bologna nella sentenza del 15 ottobre 2012, una delle prime pronunce sul famigerato Art. 18 dello statuto dei lavoratori (la legge n. 300/1970) dopo che la legge n. 92/2012 (riforma Fornero) ne ha tiepidamente ritoccato la disciplina. Ma la sentenza merita lettura per un secondo motivo: per l’interpretazione contenutistica fatta dal giudice, a tratti strabiliante, delle email circolate tra gli attori della vicenda, dalle quali era scaturito il licenziamento e la successiva questione giurisprudenziale.
Dopo la riforma Fornero ci sono due possibili conseguenze, a discrezione del giudice, per i casi di licenziamenti soggettivi o per giusta causa: la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Art. 18 comma 4) ovvero, in alternativa, la liquidazione di un indennizzo economico (Art. 18 comma 5). Nello specifico la legge stabilisce che il giudice deve disporre la reintegrazione nei soli casi in cui non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, ossia in presenza di «insussistenza del fatto contestato» al lavoratore, oppure quando il fatto contestato rientri tra le condotte che il contratto collettivo o codice disciplinare aziendale punisce con sanzioni conservative. La vicenda esaminata dal Tribunale di Bologna riguarda il licenziamento disciplinare di un dipendente avvenuto a causa dell’invio di un’email offensiva al suo superiore.
Sulla base della ricostruzione dei fatti operata dal giudice, la sentenza conclude che il comportamento del lavoratore – il «fatto contestato» – è inidoneo ad integrare il concetto di giusta causa di licenziamento. In particolare, riguardo all’espressione «insussistenza del fatto contestato», la sentenza ritiene che la legge, parlando di fatto, non può che far riferimento al c.d. ‘fatto giuridico’ inteso come fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e della sua componente soggettiva. In altre parole, non fa riferimento al solo “fatto” materiale, privo cioè dell’elemento psicologico o addirittura dell’elemento della cosciente volontà di azione. Per il giudice, nel caso esaminato, manca proprio la volontà, poiché lo stesso lavoratore «ha dato atto dell’inopportunità della propria affermazione (…) e porto le scuse del predetto comportamento».
Insomma, la presa di distanze dall’accaduto da parte del lavoratore, con la dichiarazione d’involontarietà del proprio comportamento, appare sufficiente al giudice a scusare la trasgressione del lavoratore. Quanto alla riforma Fornero, pertanto, sarà sufficiente che il lavoratore si penti – o faccia finta di pentirsi – a far crollare il “fatto contestato” alla base di un licenziamento disciplinare e a consegnare al giudice la chiave per aprire alla reintegrazione in luogo dell’indennizzo economico. Per buona pace di tutti, è questo un sonoro k.o. alla sbandierata riforma dei licenziamenti: si è riformato per non cambiare nulla; tutto è rimasto come prima.
La sentenza, come accennato, merita lettura anche per l’interpretazione contenutistica alle email circolate tra gli attori della vicenda. Una lettura che a tratti appare strabiliante nella legittima discrezionalità del Tribunale. Vale la pena seguire l’intero discorso (le email) tra i due: il lavoratore ed il superiore.
· 17 luglio 2012, email da superiore a lavoratore: «Per favore controlla questi disegni, hanno modificato di nuovo i disegni (alcune cose). Tolleranze sono state modificate. Per favore fare misurare sulla base di questi ultimi disegni allegati. Buttare via i disegni che avevamo chiesto ieri».
· 17 luglio 2012, email da lavoratore a superiore: «Confido per martedì 24 luglio 2012 di avere i rilievi con le tempistiche di modifica dei programmi».
· 17 luglio 2012, email da superiore a lavoratore: «Non devi confidare. Devi avere pianificato l’attività, quindi se hai dato come data il 24-07, deve essere quella la data di consegna dei dati. Altrimenti indichi una data diversa, che non è confidente ma certa, per favore».
· 17 luglio 2012, email da lavoratore a superiore: «Parlare di pianificazione nel Gruppo Atti, è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda. Pertanto, se Dio vorrà, per martedì 24-07-2012, avrai tutto quello che ti serve».
Se foste voi il giudice, a quale dei due attori addebitereste la colpa di aver usato parole denigratorie e offensive nei confronti dell’altro, al lavoratore o al suo superiore? A chi addebitereste la colpa di aver tenuto un tono dispregiativo, al lavoratore o al suo superiore?
Io l’addebiterei al lavoratore. Sarei pronto anche a scommetterci di non sbagliarmi, perché lo stesso lavoratore in una lettera all’azienda ammette questo suo comportamento scorretto e ne chiede scusa. Per il Tribunale di Bologna non è così. Nonostante l’ammissione di colpa del lavoratore, la sentenza decide che dalla vicenda «emerge con evidenza la modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva e il suo modestissimo peso disciplinare»: posizione tutto sommato condivisibile; ma il bello deve venire. La sentenza spiega che la frase incriminata – «è come parlare di psicologia con un maiale» – «è stata pronunciata in un evidente momento di disagio conseguente da una parte allo stress lavorativo che emerge dallo scambio epistolare, da cui si evince che il lavoratore era sotto pressione per le scadenze lavorative in essere»: passi anche questo, ma ecco l’incredibile. La sentenza prosegue affermando che la frase incriminata è stata pronunciata dal lavoratore «a fronte e nell’immediatezza di un’email del superiore gerarchico il cui contenuto è palesemente e inutilmente denigratorio e contenutisticamente offensivo della professionalità del soggetto cui era diretta», ossia lo stesso lavoratore. Per il Tribunale, infatti, dall’ultima email del superiore al lavoratore (Non devi confidare. Devi avere pianificato l’attività, quindi se hai dato come data il 24-07, deve essere quella la data di consegna dei dati. Altrimenti indichi una data diversa, che non è confidente ma certa, per favore) «emerge con evidenza il contenuto implicitamente e inutilmente denigratorio e offensivo, e il tono che è palesemente di aggressivo, rimprovero e dispregiativo (…)».
Ulteriori commenti sarebbero uno spreco di parole. Solo l’ultima considerazione: questa vicenda meriterebbe di essere giudicata sotto i profili di buona educazione e civiltà.