L’atleta vittorioso torna in Italia. Ma siamo proprio sicuri che sia un bene?
28 Febbraio 2010
Grande risalto ha avuto nei giorni scorsi la sentenza del tribunale di Pesaro che ha ordinato la confisca “al Getty Museum o ovunque si trovi” dell’atleta vittorioso, un raro bronzo greco alto 151 centimetri la cui esportazione negli Stati Uniti ha i contorni di un intrigo internazionale. Finito nelle reti di un peschereccio a largo di Fano nell’agosto del 1964, dal 1977 è uno dei pezzi pregiati del museo americano nato dalla collezione di antichità classiche del magnate petrolifero J. P. Getty.
Prima di approdare negli USA, sbarcò dapprima a Fano dove fu sotterrato in un campo, poi fu conservato a lungo a Gubbio nella vasca da bagno di un prelato, padre Gnagni, sembra che sia transitato anche in Brasile presso un missionario cappuccino italiano di Salvador de Bahia, per poi comparire nella bottega dell’antiquario Heinz Herzer a Monaco di Baviera e, dopo due anni a Londra, essere acquistato dal Museo Getty per 4 milioni di dollari.
Ora la giustizia italiana, forte anche delle prove acquisite dall’Interpol e dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, ne richiede con forza la restituzione. I vertici del Museo, incapaci a dire il vero di produrre una qualsivoglia attestazione di legittima esportazione del reperto, hanno annunciato ricorso in cassazione. Una doccia gelata sull’accordo che il Getty aveva siglato con il ministero dei beni culturali, dove, accanto alla restituzione all’Italia di molte opere, si rimandava alla decisione della magistratura riguardo al bronzo ellenistico.
Al di là di ogni sentimento nazionalistico, tuttavia, occorre riflettere sulla opportunità di perseguire per via giudiziaria il reclamo di beni archeologici più o meno illecitamente esportati e, soprattutto, sulla sorte di quelli rientrati in seguito a accordi diplomatici. Il New York Times, difatti, ha pesantemente ironizzato sul Vaso di Eufronio, rientrato nel 2008 dal Getty, dove ogni anno veniva ammirato da oltre 5.000.000 di visitatori, per essere esposto, dopo una mostra trionfalistica e un po’ retorica al Quirinale, in una sala polverosa e delabré al museo etrusco di Villa Giulia, istituzione che registra non più di 70.000 ingressi annuali. Se l’atleta rientrerà mai in Italia non è dato sapere cosa si scriverà negli Usa quando i cronisti lo andranno a scovare negli ambienti della sezione archeologica del museo del Palazzo Malatestiano di Fano.
L’Italia, che con una coraggiosa politica delle restituzioni foriera del rientro in Etiopia della Stele di Axum e della Venere di Cirene in Libia ha acquisito notevole peso nelle trattative internazionali per il recupero del proprio patrimonio archeologico, non può dissipare tale prestigio con una politica priva di ogni criterio di valorizzazione. Chi mai andrà a Aidone, sui monti Erei in provincia di Enna, per ammirare la Venere di Morgantina? Eppure è questa la decisione presa dall’Assessore alla Cultura della Regione Sicilia, Nino Strano, riguardo alla destinazione di questo capolavoro classico che verrà restituito nel 2010 dal Getty.
Forse, bisogna ammetterlo, sarebbe meglio trovare un percorso che, pur riconoscendo il diritto italiano sui reperti usciti illegalmente dal nostro Paese, ne permetta una migliore valorizzazione, con esposizioni permanenti nei musei stranieri in cui risiedono o con una circuitazione internazionale nei maggiori musei del mondo. Sicuramente un modo migliore di promuovere l’interesse nazionale rispetto a occultare questi capolavori in oscuri musei di provincia, che equivale un po’ a rigettarli in mare o riseppellirli negli scavi clandestini da cui provengono.