L’autunno della democrazia in America
30 Agosto 2016
“Materiale significativo”. La settimana scorsa il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, ha detto a Fox News che la sua organizzazione sta per rilasciare un secondo tsunami di indiscrezioni ai danni della candidata democratica alle presidenziali Usa, Hillary Clinton. Il primo assaggio Wikileaks lo aveva già dato durante la convention democratica, smascherando i pezzi grossi del comitato elettorale del partito sbilanciati su Hillary ai danni di Bernie Sanders, storia chiusa con le dimissioni della presidentessa della convenzione e il licenziamento di alcuni funzionari. Ora la combriccola di Assange si prepara al secondo round, in coincidenza del voto di novembre.
Wikileaks è un’organizzazione pericolosa per la stabilità internazionale ma va detto che i leader di oggi – se vogliono apparire credibili e dimostrare di avere la stoffa necessaria a comandare – devono saper rispondere alle accuse più infamanti sulla loro vita privata o sulle contraddizioni generate dalla loro azione di governo. Ebbene, Hillary Clinton durante la campagna elettorale ha dimostrato di non avere quella stoffa, visto che sono trascorsi più di 260 giorni dalla sua ultima conferenza stampa con domande libere dei giornalisti.
I giornaloni come il Washington Post hanno giudicato “ridicolo” l’atteggiamento di Lady Hillary ma non ci spiegano come mai una candidata screditata, sulla quale pende l’accusa di conflitto di interessi per la gestione della fondazione Clinton ai tempi in cui la dama della politica americana era segretario di Stato, riesca a tenere testa agli avversari, sia la favorita di queste elezioni, con il novanta per cento della stampa che ne elogia il programma politico ogni volta che si presenta l’occasione utile.
Lasciamo ai complottisti le storie sulle morti misteriose che circolano sul web, quella dell’avvocato che patrocinava l’azione legale dei sostenitori di Sanders contro i vertici dei Democratici, trovato morto in casa della sua fidanzata, o di quell’altro funzionario del partito ucciso durante una rapina e che secondo gli amanti delle cospirazioni sarebbe la gola profonda di Wikileaks; più che rimestare nel torbido, interessa capire qual sia lo stato di salute della democrazia americana e perché sembra che i giochi siano già fatti, dando l’impressione che la Clinton si prepari a entrare dalla porta principale alla Casa Bianca.
Dietro Hillary infatti non ci sono solo il marito Bill o l’attuale presidente Obama, non c’è solo l’elite altoborghese che ha le sue basi politiche nel multiculturalismo e nella teoria del gender, ma anche il grande capitalismo finanziario, Wall Street, le corporation, i fondi pensione, i sindacati che hanno voltato le spalle a Sanders, i pezzi grossi della intelligence compresi ex capi della Cia, e persino i neoconservatori fidati consiglieri di Bush figlio, come quel Paul Wolfowitz, tra gli architetti della guerra in Iraq, che ha dichiarato di voler votare Clinton perché Donald Trump sembra troppo accondiscendente con Putin.
Se le ragioni dei “neocon” sono comprensibili alla luce dell’ideologia su cui si fonda questo movimento politico (il volontarismo e l’interventismo democratico), in realtà lo sono meno le preoccupazioni su Trump, il quale, se vincesse, sarebbe nient’altro che un presidente di transizione, un realista in politica estera, in grado di far cambiare direzione agli Usa dopo i fallimenti accumulati da Obama nelle sue operazioni oltreoceano. Ma detto questo, bisogna chiedersi appunto cosa significa per Hillary avere dietro di sé praticamente tutte le elite del Paese, i media stesi a tappetino, i sondaggi che la danno invariabilmente in vantaggio, quegli stessi sondaggi che nel caso di Brexit hanno dimostrato di bucare alla grande il sentimento popolare.
Trump in questa campagna elettorale ha ottenuto un enorme consenso tra chi non va più a votare, tra i meno abbienti e la “working class”, è riuscito a scalare il partito repubblicano contro ogni previsione, è diventato nel bene e nel male un divo globale del web, ma nonostante tutto il candidato repubblicano insegue, e non vorremmo sembrare troppo pessimisti dicendo che rischia di non farcela a novembre. Sembra proprio che il prossimo presidente degli Stati Uniti non lo deciderà il popolo americano ma chi riuscirà a condizionare meglio la libera espressione della volontà popolare.
Ci chiediamo quindi se questo sia l’autunno della democrazia americana. Se ci fosse un voto davvero libero, Trump potrebbe vincere. Ma se il voto libero è sempre più stretto nella morsa dei media e dei poteri forti, allora, per quanto possa sembrare paradossale, auguriamoci che Trump non perda, perché se questo accadesse sarebbe a rischio la democrazia in America, quella cara ad Alexis de Tocqueville.