Lavori in corso per gli studi di settore

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Lavori in corso per gli studi di settore

10 Febbraio 2010

Lavori in corso sugli studi di settore. L’agenzia delle entrate ha fissato per domani un incontro con i rappresentanti delle associazioni di lavoratori autonomi e imprese per discutere appunto sul futuro degli studi di settore e, inevitabilmente, sugli interventi necessari (i correttivi) affinché lo strumento impiegato dal Fisco per verificare la “sincerità” delle dichiarazioni dei redditi risulti più “coerente e congruo” alla situazione di recessione economica.

Se sui correttivi è facile presumere un intervento simile a quello dell’anno scorso (anticrisi 2008), più articolato ed intrigato può farsi il discorso sul futuro degli studi di settore: labili ma significativi segnali porterebbero addirittura ad ipotizzare l’intenzione di adottare una nuova strategia nella lotta all’evasione fiscale, lasciando tramontare (finalmente!) gli studi di settore in cambio di una nuova alba per il redditometro.

Ma che cosa è lo studio di settore? In due parole può definirsi un artificio statistico nelle mani degli 007 del Fisco per scovare gli evasori (parziali e totali). Più correttamente, invece, uno studio di settore è contemporaneamente due cose: un metodo informatizzato, a base statistica, per il calcolo dei ricavi o dei compensi presunti dell’attività di ogni impresa o professionista; e uno strumento facilitato di accertamento fiscale. Il discorso riguarda solo i soggetti con partita Iva: professionisti o imprese.

Sotto il primo aspetto (metodo di calcolo di ricavi e compensi), uno studio di settore – ne esistono tanti e diversi per le varie tipologie di attività – viene realizzato prendendo in considerazione una serie di informazioni e variabili, interne ed esterne all’azienda o all’attività professionale. Questi dati sono stati forniti, la prima volta, dagli stessi contribuenti rispondendo ad appositi questionari. Esiste un software, messo gratuitamente a disposizione dei contribuenti dall’agenzia delle entrate, che consente di determinare i ricavi (per le imprese) o i compensi (per i professionisti) presunti in base agli studi di settore. Si chiama Ger.ri.co (appunto: gestione ricavi e compensi) e, in pratica, con esso i contribuenti possono verificare se le risultanze economiche che dichiarano al Fisco siano o meno “credibili”, sulla base dei risultati economici statisticamente incamerati ed elaboratori per uno studio di settore. Questa credibilità è misurata da due risultati: la “congruità” e la “coerenza”. La congruità riguarda i ricavi o i compensi dichiarati con quelli elaborati dallo studio di settore; la coerenza interessa le variabili e gli indicatori economici (per esempio, la produttività per lavoratore, etc.), insomma il comportamento imprenditoriale.

Sotto il secondo aspetto (strumento facilitato di accertamento), gli studi di settore nascono come un automatismo per gli accertamenti, ma sono finiti ad esprime solo una “presunzione semplice”. Nati dal Legislatore del 1993 (ma entrati in vigore nel 1998 con il Governo Prodi), dovevano funzionare come una formula automatizzata di accertamento: ogni qualvolta un contribuente avesse dichiarato ricavi inferiori a quelli pronosticabili con gli studi di settore, il Fisco avrebbe potuto contestargli la differenza senza necessità di ulteriori imputazioni: il compito (e l’onere) di provare il contrario, cioè del perché esisteva quella differenza, ricadeva tutto e solo sul contribuente.

Nel tempo, però, la giurisprudenza ha mitigato questo alterato rapporto tra Fisco e contribuenti; da ultimo (ma l’agenzia delle entrate aveva di fatto già anticipato questo nuovo modo di operare) è arrivata la sentenza della corte di Cassazione, sezioni unite, n. 26635 del 18 dicembre 2009, la quale ha stabilito che gli scostamenti misurati dagli studi di settore hanno una natura meramente presuntiva e rappresentano unicamente un indice rivelatore di una possibile anomalia del comportamento fiscale tenuto dal contribuente. Si tratta, dunque, di presunzioni semplici la cui gravità, precisione e concordanza non deriva dalla legge che li ha istituiti, ma dall’esito del contraddittorio preventivo che deve obbligatoriamente essere attivato, pena la nullità stessa dell’accertamento.

Certo che ora, rispetto al passato, la vita dei contribuenti è meno sconquassata dagli studi di settore. Ma resta il dubbio: gli studi di settore sono realmente efficaci per contrastare l’evasione? No, a parere di chi scrive. Anzi, possono avere l’effetto contrario di “facilitare” forme di fuga dalle realtà contabili, conseguenze inevitabili di ogni tentativo di “catastalizzare” il reddito. Fissare un limite minimo per valutare la correttezza delle dichiarazioni reddituali, infatti, produce un duplice effetto sui contribuenti.

Primo: quello di spingere chi si trovi al di sotto di tale limite ad adeguarsi al livello di regolarità. Questo potrebbe aiutare a far emergere le attività sommerse, che altrimenti non avrebbero scampo ad una verifica da parte degli uffici finanziari; ma crea pure non poche ingiustizie per quei contribuenti che, pur non essendo evasori, si trovano a dover provare le ragioni del mancato raggiungimento del volume minimo di regolarità contributiva (oltre al danno anche la beffa).

Secondo effetto: quello di istigare chi si trovi al di sopra del livello minimo di regolarità a portarsi verso tale livello, a scendere e comprimere il volume di affari, così da poterne ricavare un pagamento inferiore di tasse, fermo restando la (parvenza di) regolarità contributiva per il Fisco. E’ un effetto perverso ma molto realistico e risponde ad una semplice domanda: se per il Fisco un’azienda è da considerarsi in regola dichiarando 100 oppure 150 (stare in regola significa non correre rischi di accertamento), quanto dichiarerà questa azienda?

Il peccato originale degli studi di settore sta nel loro dna, che nasconde la sottile e viziosa idea che tutti sono, tutti possono, tutti agiscono come e al pari degli altri.

 

Manca, infatti, tra le tantissime variabili elaborate per costruire questa mega banca dati (dati contabili, reddituali, economici, di mercato, etc.) quella più importante e che da sola fa cadere l’intero apparato statistico: è la variabile della capacità e dell’intuizione imprenditoriale, quella che Keynes definì “animal spirit”.

E come si fa a tradurre in un numero, in una cifra ciò che ha spinto un individuo ad intraprendere un’impresa trovando come motivazione la sua personale intuizione e convinzione di poter avere successo, senza aver fatto quelle analisi economiche e indagini di mercato che lo avrebbero portato a prendere una decisione più razionale, ma non per questo con più probabilità di successo?