Lavoro e sviluppo, un’impresa italiana

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Lavoro e sviluppo, un’impresa italiana

Lavoro e sviluppo, un’impresa italiana

14 Gennaio 2014

Il botta e risposta dei giorni scorsi tra il neosegretario del PD Matteo Renzi e il leader di NCD Angelino Alfano intorno alla riforma del diritto del lavoro ha proiettato al centro del dibattito politico un tema chiave per il futuro dell’Italia. L’esigenza di stabilire nuove regole in materia di lavoro e sviluppo è una necessità ineludibile per un Paese ingessato da norme vetuste e complicate che non hanno contribuito di certo a risollevare i destini nazionali in questi anni di crisi.

NCD è impegnato in un confronto serrato, dentro e fuori dal governo, per superare la riforma Fornero attraverso la creazione di uno Statuto dei Lavori che crei i presupposti per modernizzare l’ordinamento italiano: un testo unico composto da poche norme inderogabili che tengano conto dei principi dell’ordinamento comunitario – queste sì traducibili in inglese – e che lascino spazio agli accordi collettivi e individuali raggiunti a livello aziendale e interaziendale. Il principio di base che ispira questo schema è chiarissimo: più la regola del rapporto di lavoro è semplice e certa, maggiore sarà l’efficienza dell’attività di ispettori e magistrati nel reprimere le violazioni sostanziali rispetto a quelle formali; e maggiori saranno gli incentivi agli investitori (italiani e non) per creare posti di lavoro nel nostro Paese.

Partendo da queste premesse è senz’altro possibile intavolare un confronto non ideologico (e quindi costruttivo) con le diverse anime che formano la maggioranza e il governo. E’ bene ricordarsi però che le regole, di per sé, non creano posti di lavoro ma servono invece a creare le condizioni – si spera le migliori possibili – per favorire gli investimenti in attività d’impresa e, di conseguenza, la produzione di nuove opportunità di occupazione. È in quest’ottica che una ‘buona’ riforma del lavoro deve essere una riforma di sistema, altrimenti è destinata a fallire.

Detto in parole povere, lo Statuto dei Lavori – o Jobs Act, nella formula degli esterofili del PD – deve essere accompagnato da una serie di interventi che riguardano il risparmio e il credito alle aziende, la burocrazia e il fisco, l’energia e le infrastrutture (soprattutto telematiche), i servizi alle famiglie e alle donne lavoratrici. E non sarebbe una cattiva idea integrare il mondo della scuola con quello del lavoro: come? La parola d’ordine è riqualificazione: dei licei, nei quali la qualità dell’offerta formativa è espressa a macchia di leopardo sul territorio nazionale; degli istituti tecnici e professionali, che devono elevare i loro standard per fornire agli studenti le competenze necessarie a collocarsi nel mondo del lavoro; delle università, che devono interagire con il mondo delle imprese per rispondere alle esigenze dell’economia e favorire l’inserimento dei neolaureati nelle attività produttive.

Da dove iniziare? A dispetto delle difficoltà, basterebbero due mosse per iniziare a sbrogliare la matassa: 1. mettere la riforma del lavoro al centro dell’agenda di governo e collegare a questa tutte le iniziative di riforma degli altri settori; 2. concentrare sul lavoro e l’impresa tutte le risorse ottenute attraverso la revisione della spesa pubblica – la mitica spending review – e il recupero dell’evasione fiscale. In tempi di crisi e di disoccupazione galoppante non dovrebbe essere così difficile raggiungere un accordo di governo su di un tema giudicato da tutti prioritario.

Sul tema del lavoro il governo – e la politica in generale – deve dimostrare di possedere un progetto di ampio respiro che contenga un’idea chiara sul ruolo dell’Italia nel sistema globale dei prossimi decenni. Il contributo di NCD va in questa direzione; speriamo che gli alleati di governo non si accontentino di preparare la loro campagna elettorale.