Le 10 decisioni fatali che cambiarono il mondo
28 Ottobre 2007
di Daniela Coli
Esistono
decisioni fatali di pochi leader che possono trasformare un conflitto locale in
una guerra globale dalla quale il mondo esce cambiato e segnato da milioni di
morti? In un periodo di disordine mondiale come l’attuale, con la fine del
bipolarismo Usa-Urss, l’emergere di nuove nazioni con aspirazioni di potenza
come la Cina, la Russia, l’India, l’Iran, con leader aggressivi come
Ahmadinejad in un’area infuocata come il Medioriente dove è in corso un
conflitto che minaccia di espandersi, gli interrogativi sulla possibilità di
una nuova guerra globale sono all’ordine del giorno. Per questo, il libro di
Sir Ian Kershaw sulle dieci decisioni fatali che cambiarono il mondo tra il
maggio del ’40 e il dicembre del ’41 sta suscitando un grande interesse in
Inghilterra. E’ possibile che un pugno di uomini potenti, di diversi paesi,
possa decidere di cambiare il destino di nazioni e continenti come accadde tra
il ’40 e il ’41? Per Ian Kershaw, uno
dei più autorevoli storici britannici, è possibile.
Kershaw
è nato nel 1943, è allievo di Martin Broszat
e si dedica da oltre trent’anni alla storia della Germania nazista. E’
uno storico positivista, “rankiano”, un grande conoscitore di archivi nazisti,
apprezzato in Germania, dove ha pubblicato il suo primo libro sul Terzo Reich e
il culto di Hitler. Kershaw è uno strutturalista
e un funzionalista, come Brozsat e Hans Mommsen è convinto che le radici e le
strutture dello stato nazista siano più importanti della personalità di Hitler
per spiegare lo sviluppo della Germania nazista. Per Kershaw, il reale
significato di Hitler non sta nella sua personalità, ma in ciò che i tedeschi
videro in lui. Nel 1998 e nel 2000 ha pubblicato una imponente biografia di
Hitler, dove il Führer è rappresentato come un capo carismatico, perché riesce
a interpretare la volontà e le intenzioni dei tedeschi, i quali a loro volta
agivano spesso senza i suoi ordini, convinti di seguire le sue aspettative e di
ottenere la sua riconoscenza.
Pochi mesi fa, Kershaw ha pubblicato Fateful
Choices: Ten Decisions that Changed the World, dieci decisioni prese
tra il maggio 1940 e il dicembre 1941 che hanno cambiato il mondo. Sorprendendo
tutti, come ha rimarcato Niall Ferguson, per uno storico sociale come Kershaw,
queste decisioni furono prese solo da pochi uomini: Churchill, Hitler, Stalin,
Mussolini, Roosevelt e dalla ristretta élite giapponese. Queste decisioni
fatali per il destino del mondo furono: 1) la decisione di Churchill di
continuare a combattere dopo il crollo della Francia, 2) di Hitler di attaccare
l’Unione Sovietica, 3) del Giappone di
attaccare gli imperi europei in Asia, 4) di Mussolini di attaccare la Grecia,
5) di Roosevelt di aiutare
economicamente la Gran Bretagna, 6) di Stalin di ignorare le informazioni
dell’intelligence dell’attacco tedesco, 7)
di Roosevelt di una guerra non dichiarata ai sottomarini tedeschi
nell’Atlantico; 8) dell’attacco del Giappone a Pearl Harbour; 9) di Hitler di dichiarare guerra agli Stati
Uniti; 10) di Hitler di uccidere gli ebrei.
All’improvviso, lo strutturalista e funzionalista Kershaw con una svolta
teorica clamorosa afferma che al centro delle decisioni di una guerra con 60
milioni di morti vi fu semplicemente la personalità individuale di pochi
potenti. Tutto parte dalla decisione di Churchill di continuare a combattere:
la scelta impone a Hitler di attaccare direttamente l’Inghilterra o di forzarla
a riconoscere la supremazia tedesca in Europa con una rapida campagna
vittoriosa in Urss. Hitler ignorò il divieto bismarckiano di combattere una
guerra su due fronti, convinto che una vittoria rapida sull’Armata Rossa
avrebbe fatto capitolare la Gran Bretagna e impedito a Roosevelt alle prese con
un Congresso isolazionista di entrare in guerra. La decisione di Mussolini di
attaccare la Grecia senza avvertire Hitler, un’invasione senza chance di
successo fece infuriare il Führer, perché lo costrinse a ritardare l’attacco
per inviare soccorsi tedeschi in Grecia. Hitler deplorò sempre l’invasione
della Grecia, perché avrebbe avuto la conseguenza fatale di impedire alla
Wehrmacht di arrivare a Mosca prima dell’inverno. Kershaw però smentisce questa
idea fissa di Hitler, perché le grandi piogge di quella primavera sull’Europa
centrale impedirono agli aerei della Luftwaffe di decollare. Stalin non volle
credere agli avvertimenti dell’intelligence britannica perché li riteneva una
provocazione e perché aveva un esercito in pessime condizioni. Il Giappone
frustrato dall’aiuto americano a Chiang Kai-Shek in Cina e dall’embargo
petrolifero americano decise di attaccare gli americani a Pearl Harbour, pur
consapevole di avere poche chance di vittoria. Quattro giorni dopo l’attacco a
Pearl Harbour, Hitler dichiarò guerra agli Stati Uniti, la decisione più
sconcertante di tutta la guerra, considerata dagli storici al limite della
follia. Per Kershaw, non fu però una scelta motivata da un attacco di pazzia,
ma dal desiderio di impegnare nel Pacifico gli americani e distrarli dall’idea
di dare sostegno alla Russia e soprattutto dalla guerra sottomarina
nell’Atlantico. “Fu una follia – osserva Kershaw – ma c’era del metodo in
essa”. Poiché né l’Italia, né il Giappone ebbero successi, la guerra su due
fronti di Hitler si rivelò una catastrofe per la Germania, una carneficina
umana mondiale e il genocidio degli ebrei. Kershaw conclude che le decisioni di
pochi dittatori megalomani segnarono il destino dell’Europa occidentale e anche
della Gran Bretagna, che non aveva la forza per vincere Hitler. Solo l’America
aveva il potere di capovolgere la situazione in Europa e la Gran Bretagna si
offrì come base agli americani per attaccare Hitler sul fronte occidentale.
Il libro di Kershaw ha acceso una interessante
discussione in Inghilterra. Secondo Gary Sheffield, un importante storico
militare, se la Gran Bretagna avesse scelto di fare la pace nel maggio-giugno
del ’40 la guerra avrebbe preso tutto un altro corso e se Hitler avesse
continuato l’alleanza con Stalin, sarebbe stata la Gran Bretagna e non la
Germania a subire una sconfitta devastante. Per Sheffield, fu comunque la
decisione del Giappone di invadere le colonie europee in Asia e di attaccare
gli americani a trasformare una guerra tra europei concentrata in Europa in un
conflitto globale.
Il dibattito sulle “decisioni fatali” di Kershaw è
particolarmente importante adesso con l’emergere sullo scenario internazionale
di nuove potenze con leader bellicosi, aspirazioni nazionaliste, in mezzo a
un’area di conflitti incandescenti in
Medioriente, che si estende
dall’Afghanistan, all’Iraq, al Pakistan, e potrebbe ampliarsi per l’intervento
di altre potenze. Un conflitto ora localizzato potrebbe globalizzarsi.
Fortunatamente non esiste però, almeno per ora, una potenza come la Germania
nazista del ’40 capace di travolgere una Francia e di costringere
un’Inghilterra alla sconfitta e a un’umiliante ritirata a Dunkirk. Niall
Ferguson ricorda come il veloce crollo della Francia provocò in Churchill visioni apocalittiche di un’Inghilterra ormai
rasa al suolo dalle bombe e immaginò di dirigere dal Canada una guerra aerea
contro un’Europa ormai tutta dominata da Hitler. Il successo di Hitler galvanizzò paesi a cui
non sarebbe mai venuto in mente di entrare in guerra da soli. Ferguson mette in
risalto che la decisione del Congresso americano nel ’41 di rafforzare e
modernizzare l’esercito passò con un solo voto e che nel giugno del ’40 a
Berlino stavano ancora seriamente pianificando la deportazione degli ebrei
della Polonia in Madagascar. Ferguson
contesta a Kershaw che l’attacco tedesco all’Urss fosse folle come quello
giapponese a Pearl Harbour, perché i giapponesi sapevano di avere poche chance.
Pearl Harbour fu l’ultimo colpo di cannone di una élite militare frustrata
dagli americani nell’ambizione dell’impero in Cina. I tedeschi invece erano
sicuri di vincere l’Armata Rossa e anche molti osservatori occidentali ne erano
certi: la sicurezza si basava
sull’impreparazione dell’esercito russo. Ferguson rovescia anche il paradigma
di Kershaw di pochi leader che decidono il destino del mondo, perché, a suo
giudizio, Churchill decise di continuare a combattere nel ’40 perché sapeva che
gli inglesi non avrebbe sopportato una soluzione alla Vichy. Ferguson ha
ragione, perché neppure i tedeschi avrebbero continuato a combattere fino
all’ultimo minuto se la decisione della guerra di Hitler non fosse stata
condivisa.
Lo scontro tra Kershaw e Ferguson è stimolante perché i due storici
hanno anche preso posizioni diverse sulla guerra in Iraq. Ferguson ha criticato
gli Stati Uniti, rimproverandoli di non avere la forza di chiedere agli
americani di combattere, di non essere capaci di inviare più uomini e di
investire risorse come avrebbe fatto l’impero britannico, in sostanza di non
essere in grado di assumersi responsabilità imperiali pur essendo un colosso
con 750 basi nel mondo. Kershaw ha invece criticato la decisione di Blair di
far partecipare l’Inghilterra a una guerra disastrosa come l’Iraq. Blair si è
comportato come un decisionista, offrendo sostegno incondizionato agli Stati
Uniti dopo l’11 settembre, prima in Afghanistan e poi in Iraq, senza chiudersi
in un gabinetto di guerra come Churchill dopo Dunkirk e senza il salvagente di
un Halifax pronto a trattare. Per Kershaw, Blair non ha capito che la “special
relationship” con gli Stati Uniti non si basa su questioni emotive e
ideologiche, ma sugli interessi nazionali di Gran Bretagna e Usa, non sempre
simili. Ha ricordato che la guerra delle Falklands fu un’impresa militare tutta
britannica, che Harold Wilson negli anni ’60, nonostante i buoni rapporti con
Johnson, tenne gli inglesi fuori dal pantano del Vietnam e che Eisenhower nel
’56 non ebbe nulla a che fare con la disastrosa decisione di Anthony Eden di
invadere il Canale di Suez e si limitò a forzare gli inglesi a un ritiro poco
onorevole. Per Kershaw, la “special relationship” non era tanto speciale
neppure nel maggio del 1940, quando Churchill decise di continuare a
combattere, sperando nell’intervento americano. Allora gli americani erano
isolazionisti e militarmente impreparati e, se dettero sostegno economico agli inglesi, per farli entrare in
guerra fu necessario l’attacco giapponese e la dichiarazione di guerra tedesca.
La guerra in Iraq ha per Kershaw indebolito da entrambe le parti la “special
relationship”. In effetti, non è un grande momento per la “special
relationship”. Gerard Baker all’indomani del ritiro inglese da Bassora ha
scritto un editoriale al vetriolo e giocando sul paragone con l’impero romano
ha dichiaro che ormai l’unica cosa che non si sa è chi saranno i Vandali che
andranno a saccheggiare Washington. Baker è il più autorevole commentatore del Times
sugli Stati Uniti. Le turbolenze però sono sempre state all’ordine del giorno
nella storia della special relationship. Un esperto degli amici inglesi di
Hitler come Kershaw, autore di un bel libro su lord Londoderry, il cugino di
Churchill favorevole a un’intesa con i tedeschi, sa bene che fu proprio
l’intelligenza inglese di avere dato qualche speranza a Hilter di possibilità
di pace a fargli venire l’idea di invadere la Russia. Tra Churchill e Hitler si giocò anche una
terribile guerra psicologica, perché entrambi puntarono nel ’40, al momento
delle fatali decisioni, su scenari di cui non erano affatto sicuri.
Si racconta
che all’inizio degli anni ’70, Kershaw allora medievalista andò in Germania per
un corso di tedesco. Durante una pioggia si rifugiò in un locale e incontrò un
vecchio tedesco, che gli avrebbe detto: “Voi inglesi dovevate seguirci! Insieme
avremmo dominato il mondo!” . Da allora si dice Kershaw si sia messo a studiare
il nazismo. All’inizio degli anni ’80 a Londra un’anziana signora inglese,
vedendo un libro con Hegel nel titolo esclamò: “I tedeschi? Non c’è bisogno di
studiarli, basta trattarli come Churchill e diventano cagnolini!”. Il fascino
per la cultura inglese nasce anche dalla straordinaria e misteriosa sicurezza
britannica. Anche questo è un modo per costruire un’Europa diversa.