Le armi di Saddam e la “pistola fumante” di Wikileaks
26 Ottobre 2010
di redazione
Per anni il pubblico occidentale è accorso nelle sale cinematografiche decretando il successo di film come “Green Zone”, protagonista un Matt Damon ufficiale dei marines che scopre di aver ricevuto documenti farlocchi dall’intelligence militare visto che quando arriva nei presunti siti delle armi di distruzione di massa di Saddam li trova puntualmente vuoti. Con storie del genere, la “gilda” hollywoodiana ha ottenuto il suo obiettivo: dipingere la guerra di Bush come un complotto, e la "pistola fumante" sventolata da Powell come una superba menzogna utile a rovesciare il dittatore iracheno – l’amico diventato improvvisamente nemico degli Usa. Oggi i Warlogs di Wikileaks ridimensionano, per non dire sconfessano, quella vulgata.
Per anni il ruolo dell’Iran nel conflitto iracheno è stato taciuto o sottostimato e anche in questo caso, nonostante fosse evidente che dietro le milizie sciite in Iraq ci fossero i soldi e i consulters iraniani, si è preferito continuare a dipingere Teheran come un eventuale partner nella stabilizzazione dell’area (stessa cosa con l’Afghanistan, Karzai ha fatto sapere di aver ricevuto sacchi di denaro dai mullah). L’amministrazione Bush a suo tempo aveva denunciato queste connections ma, esattamente come nel caso delle armi di distruzioni di massa di Saddam, era stata accusata di fabbricare prove strumentali ad una invasione dell’Iran. Un altro "complotto", sempre a cura dei neocon, a cui gran parte dei commentatori occidentali si sono docilmente abbeverati.
Ora il Telegraph e il New York Times, spulciando nelle centinaia di migliaia di documenti di Wikileaks, ci raccontano che l’Iran è stato un attore primario nella destabilizzazione dell’Iraq. Ancora meglio fa la rivista Wired pubblicando un articolo in cui si dice che – se è vero che la pistola fumante era un’esagerazione – questo non vuol dire che negli anni successivi all’invasione dell’Iraq le truppe americane abbiano smesso di cercare le armi in questione, trovando, in diverse occasioni, prove a sufficienza sulla presenza o il passaggio di agenti chimici e batteriologici, in mano agli insorgenti baathisti, agli "stranieri" di al Quaeda o a qualche manina iraniana.
L’America di Bush ha commesso non pochi errori esportando la democrazia in Iraq. Ma quello su cui dovremmo interrogarci è il paradosso per cui se sono la Casa Bianca o il Pentagono ad offrire delle prove sulle attività militari del nemico (o dei Paesi avversari), la grande stampa occidentale reagisce come un mastino, verificando, criticando, e in molti casi alimentando quel sentimento antiamericano ormai prevalente ad ogni latitudine. Se invece a fornire le stesse prove è un sito di matrice anarcoide e dalla caratura prevalentemente antioccidentale come Wikileaks, allora analisti e giornalisti si fidano ciecamente della fonte e la trasformano in un fatto, uno scoop, una notizia ghiotta. Per quanto ci riguarda, non abbiamo avuto bisogno di aspettare i Warlogs di Julian Assange o la retromarcia del NYT per sapere che il presidente Bush aveva ragione a metterci in guardia. Dalle mire di Saddam Hussein prima che fosse troppo tardi. E da quelle di Ahmadinejad ma forse è già troppo tardi.