Le banche cercano rifugio nelle opere pubbliche
24 Febbraio 2010
L’uragano del financial crunch proveniente da Oltreoceano pare si sia attenuato. Sulle sponde del nostro Paese, i maggiori istituti di credito, sono rimasti al riparo dalla tempesta grazie a Banca d’Italia che ha vigilato scrupolosamente sulla solidità delle banche, implementando anzitempo i parametri di vigilanza previsti da Basilea due. Questa azione di controllo, insieme ad una certa arretratezza del sistema creditizio italiano, ha preservato i nostri istituti dalla crisi profonda che ha colpito i maggiori player internazionali.
Le banche italiane infatti tradizionalmente richiedono robuste garanzie per l’erogazione dei mutui: per finanziare l’acquisto di un immobile abitativo non oltre il 20% del valore del bene, gli istituti sono soliti chiedere l’ipoteca di tutto l’immobile. Questo modo di fare credito piuttosto arretrato, ha limitato l’apertura del mercato creditizio italiano ai subprime e di riflesso ha limitato il ricorso ai meccanismi della cartolarizzazione di assets tossici con effetti a domino su tutto il sistema, come è invece avvenuto negli USA. Analogamente, il sistema italiano ed in generale europeo, guardando con prudenza al credito al consumo facile, erogato mediante carte di credito revolving e a sua volta sostenuto da grandi operazioni di securitisation, ha ridotto i rischi per le istituzioni finanziarie e, in generale per il mercato.
Eppure gli istituti nostrani di grandi dimensioni hanno comunque sofferto. Per ovvietà, si dirà che in un panorama internazionalizzato e globalizzato, fosse una conseguenza inevitabile. Del resto, il fondo Pioneer gestito da Unicredit che opera investimenti in tanti paesi e soprattutto su una vasta gamma di prodotti finanziari, è stata causa di inevitabili sofferenze. Giova a questo proposito ricordare il coinvolgimento di questo fondo con la truffa operata da Bernie Madoff oltreoceano.
Tuttavia, le sofferenze sui bilanci, sulle quotazioni dei titoli e infine sulla qualità del credito erogato al sistema paese, deriva immancabilmente da scelte operativo-gestionali operate dai grandi colossi. Unicredit in particolare ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione ad est – lo si nota dalla cartina tutta rossa disponibile sul sito on-line – operata integralmente a leva finanziaria e con l’acquisizione di istituti bancari spesso traballanti. Si pensi all’operazione con HVB le cui sofferenze sono pesate sulla capitalizzazione di tutta Unicredit, comportando una tempesta finanziaria sulla quotazione del titolo in borsa.
In breve nel corso di un anno, Unicredit per ovviare a una violenta sottopatrimonializzazione, è dovuta ricorrere alla sottoscrizione di un prodotto ibrido, i cashes, successivamente, a un aumento di capitale e poi alla ristrutturazione delle banche retail per recuperare maggiore efficienza. L’espansione all’estero che avrebbe dovuto creare valore per gli azionisti e rafforzare la solidità dell’istituto in favore del sistema economico del paese, ha sortito effetti decisamente contrari. Le operazioni per sostenere la capitalizzazione dell’istituto hanno richiesto il pesante intervento delle fondazioni. In questo modo è scesa la disponibilità di fondi per il territorio su cui le fondazioni sono radicate, per il finanziamento di social housing, ricerca, innovazione e sviluppo, investimenti nella piccola e media impresa.
Altri istituti hanno preferito coltivare la dimensione territoriale, favorendo processi di aggregazione finalizzati però a rendere servizi migliori nelle aree in cui non fossero presenti. E’ il caso della Cassa di Risparmio di Genova. Negli ultimi anni Carige si è sviluppata incrementando soprattutto il numero di sportelli mediante il consolidamento con la Cassa di Risparmio di Savona, Cassa di Risparmio di Carrara, Banca del Monte di Lucca, Banca Cesare Ponti.
L’attenzione alla clientela retail e agli investimenti sulle imprese locali, ha premiato gli azionisti che, in piena crisi, hanno ricevuto una divedendo di 0,08€ per azione per l’esercizio 2008, pari alla cedola staccata per l’esercizio 2007, in crescita dell’1% rispetto al 2006. Con un utile netto pari a 205 milioni di euro, si può dire che Carige abbia risentito minimamente della crisi e, anzi, si stia riposizionando per acquisire nuove quote di mercato, in particolare nelle aree dove manca una solida raccolta retail.
Di recente infatti Carige insieme alla Fondazione C.r.t., per altro azionista forte di Unicredit, ha deciso di costituire una nuova banca proprio a Torino.
Il nuovo istituto dovrebbe chiamarsi Carito. Banca Carige dovrebbe conferire al nuovo soggetto 60 sportelli già presenti in Piemonte e per questo dovrebbe ricevere il 60% del capitale. Alla Fondazione Crt spetterà una quota del 40%. Carige inoltre dovrebbe cedere alla Fonazione Crt 100 milioni di obbligazioni convertibili, pari a circa l’1,5% del proprio capitale, rimanendo tuttavia proprietaria dei propri sportelli.
Questa iniziativa sembra proprio collimare con le esigenze territoriali, soprattutto della media e piccola impresa. D’altra parte non è un mistero che più volte la Fondazione Crt, abbia invocato maggiore attenzione da parte di Unicredit che rappresenta il maggiore asset in portafoglio alla Fondazione che detiene una partecipazione superiore al 5%.
Del resto anche la componente torinese di Intesa San Paolo, ha chiesto ripetutamente maggiore sensibilità alle politiche territoriali del grande istituto. Peccato che anche il tentativo di portare sotto l’egida torinese il coordinamento delle attività retail sul territorio sia fallito.
In ogni caso, la trascuratezza del territorio e la minor liquidità degli istituti, inevitabilmente penalizza la piccola e media impresa. Dall’inizio della crisi ad oggi le banche hanno ridotto notevolmente il credito per massimizzare i ricavi e ridurre il rischio. Infatti considerando che una banca di solito opera su una scala di rating da 1 a 12 – dove 1 indica il massimo merito di credito e 12 il peggiore merito di credito – la banca di solito finanzia soggetti che siano compresi nel range tra 1 e 5. In questo momento di crisi, le banche tendono a finanziare soggetti il cui merito di credito si attesti tra 1 e 3, in conseguenza della restrizione della liquidità degli istituti e al fine di limitare il rischio e massimizzare i profitti.
I progetti cosiddetti “bancabili” di questo momento contingente appartengono più alla sfera pubblica che a quella privata. E’ indubbio infatti che i comitati crediti delle banche per mettersi al riparo dai rischi e massimizzare le risorse a disposizione preferiscano investire sulla costruzione di infrastrutture. Le grandi opere, benché richiedano ingenti investimenti e prevedano piani di rientro molto lunghi, con un minino di trent’anni, costituiscono un ritorno certo dell’investimento. Nel caso della costruzione di un inceneritore, ad esempio, del valore di 500 milioni di euro, il rapporto debt to equity del progetto può risultare 85 a 15. Le banche che rischiano un capitale cospicuo, possono comunque contare sui flussi di cassa garantiti dalle tariffe per l’affidamento dei rifiuti, con un ritorno certo di capitale ed interessi.
E’ indubbio che la costruzione di nuove infrastrutture e l’ammodernamento di quelle esistenti non possa che giovare a tutto il sistema economico e abbia una ricaduta su tutta la popolazione, a partire dalla creazione dei posti di lavoro. Rimane il fatto che le banche, lungi da dover essere enti no profit, hanno l’obbligo di continuare a irrorare l’iniziativa dei privati, soprattutto di quelle piccole e medie imprese, che costituiscono l’eccellenza della nostra economia e che negli anni hanno contribuito in modo determinante a mantenere attivo il saldo della bilancia commerciale del paese.