Le cinque lapidi

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Le cinque lapidi

11 Aprile 2010

Ora che il destino semplice e atroce di Lamed-Thal è compiuto, ora che la sua storia è uscita dalle pieghe del possibile, si può tentare di raccontarla (o di congetturarla) componendo i pochi dati certi con le ricostruzioni di seconda e terza mano e, anche, con le palesi distorsioni di età posteriore. Ma esistono dati certi? O non si tratta in ogni caso di vari gradi di fiducia che noi stessi accordiamo alle diverse elaborazioni della nostra mente, colorando più o meno intensamente di oggettivo ciò che rimane pur sempre soggettivo?

Seguendo una corrente di pensiero che risale all’epoca dei primi fatti, alcuni ritengono che il ritrovamento delle cinque lapidi sepolte nella sabbia fosse inevitabile e necessario, e così pure le secolari, travagliatissime tappe della loro decifrazione e la conseguente costruzione – perché questo è il termine – del destino stesso di Lamed-Thal. A sostegno di questa tesi vengono citate le antiche leggende lamediche che parlano delle «cinque ruote del fato» e della «città lucente vuota d’uomini», e le poesie profetiche di Tolul.

Sui particolari del rinvenimento è rimasta solo la testimonianza, forse inattendibile, di Tolul, appunto, che con quest’operetta chiuse la sua attività poetica e insieme la sua vita:

    Sotto un vecchio cielo
    di nubi stracciate
    che inseguono un orizzonte perduto
    tre bimbi di Thal
    spingono il loro sorriso innocente
    oltre le mura, giocando.
    Li avvince una gonfia malia,
    concentriche spinte li serrano muti.
    Scavar nella sabbia
    con mano esitante
    è un piccolo gioco
    di sempre.
    Toccata,
    la pietra tepida e scabra
    risponde con fremiti d’arpa.
    Intorno
    il vento scuote le tamerici
    del mondo.
    La sorte di Thal è raccolta
    nelle tenere mani
    che sfiorano le lapidi brune sepolte.
    Cinque monili di sasso
    sospesi all’ambiguo sorriso
    del nostro destino.

Trasportate a Lamed-Thal, le cinque lapidi – brune e gigantesche – furono appoggiate contro il fianco del tempio di Ctul. Il sole al tramonto le illuminava di striscio e suscitava ombre fantastiche dai segni che le ricoprivano fittamente. Questo groviglio di incisioni, di tacche, di solchi si concentrava in ampi gruppi a bassorilievo, collegati da archi e linee decise: certe costellazioni di segni parevano alludere a misteriose periodicità, a ritmi che appena intravvisti sfuggivano, a forme che si alternavano con vicendevoli leggi. Qua e là la trama si annodava in fiori corposi, dove l’intrico si faceva più denso, dove c’erano le cose e insieme le parole per dirle e i suoni di quelle parole, con una progressione che presto spariva in un vortice dove l’occhio si confondeva e la mente si smarriva. Ogni figura, ogni traccia, ogni linea conteneva sé stessa, il suo significato e il significato del suo significato…

Dopo il lavoro dei campi, sempre più spesso i Thaliti venivano al tempio per contemplare le stele. Il sole, rotando lentamente nel cielo, modificava i colori e le ombre e, pareva, anche i segni, in un’evoluzione ripetuta che sembrava non fosse mai esattamente la stessa. Nel cuore e nella mente dei Thaliti quegli strani arabeschi suscitavano ansie improvvise, accennavano a rivelazioni sfuggenti. Da semplici segni incisi sulla pietra – attraverso moti impercettibili e insondabili progressioni dell’animo – essi si caricavano di realtà concrete e simboliche, chiedevano di essere interpretati, movevano oscuri meccanismi, generavano vigili disposizioni. Pare che, col tempo, ciascuno, in un’esigua zona di lapide, in un piccolo gruppo di segni, cominciasse a sentire un’eco precisa, anche se molteplice ed enigmatica, di qualcosa che lo riguardasse da vicino, che avesse a che fare con la sua unica irripetibile persona, con la sua transitoria esistenza terrena. Questa scoperta provocava una meraviglia pensosa, come a trovare la propria immagine, confusa ma certa, in una nube del cielo o in una roccia della montagna.

Nell’infinito giuoco di richiami tra i vari gruppi di figure, era un sollievo per gl’incantati osservatori riconoscere la propria effigie e aderirvi come a un viso familiare scorto in una folla sterminata. La densità di queste immagini pareva diluirsi verso i bordi in qualcosa di più sottile e inafferrabile, come un ricordo o un presagio. Nel simbolo di ciascuno si leggeva il suo passato e si afferrava il movimento che animava il suo futuro.

Al tramonto, quando i raggi obliqui parevano dare alla pietra la rosea trasparenza della carne e dalle lapidi esalava come un lento tepore di focolari silenziosi, i Thaliti venivano al tempio di Ctul e si avvicinavano trepidi alle stele. Nei loro cuori si allargava un’ansiosa dolcezza, come per un appuntamento d’amore sempre rinnovellato e non mai mantenuto. Ciascuno cercava nelle figure «la propria storia e la propria felicità» e puntualmente la scopriva, riconoscendola in un modo misterioso e assoluto in cui «le sinuosità degli incavi si adeguavano al pulsare del cuore».

A poco a poco, il confuso cifrario dei segni, la densa vita dei simboli prese a condensarsi in qualcosa di voglioso e inespresso. Nella mente e nel cuore dei Thaliti cominciò a riverberare l’eco di un rauco richiamo, come se qualcosa d’informe, incarcerato nella pietra, anelasse d’uscirne risalendo da profondità inesplorate per abbeverarsi d’aria e di luce. Questo sotterraneo tormento oscuramente avvertito non diminuiva l’immenso valore consolatorio delle lapidi, che è confermato dall’invocazione rituale (e quanto profetica!) con cui i Thaliti si accostavano alle stele:

«Il destino viene a me su cinque Ruote di pietra. A lungo l’ho atteso nell’oscurità, ma ora esso è qui e mi prende per mano guidandomi alla luce. Ad esso mi confido sicuro, in esso riposo la stanchezza del mio corpo. Le Ruote di pietra del mio destino ardono nel sole del tramonto e bruciano le mie tribolazioni. Affondo coi miei fratelli in un lago di tranquillità e raggiungo Ctul nella sua pace».

Valore consolatorio, ma anche, come appare in alcuni passi del Libro delle Lapidi, magico: «Il mondo delle Lapidi vive in noi e noi viviamo nel mondo delle Lapidi»; artistico: «Armonioso come un bassorilievo delle Lapidi»; religioso: «Le Lapidi mi parlano di Ctul e Ctul mi parla nelle Lapidi»; ermetico e filosofico: «Le Lapidi mi dicono la verità per enigmi e i loro enigmi sono l’unica verità»; scientifico: «Il mondo è tutto nelle Lapidi»; e morale: «La lettura delle Lapidi è il nostro dovere più alto». Quelle cinque lastre, trovate per un caso ineluttabile in una landa sabbiosa, si rivelavano dunque via via come una sorgente inestinguibile di conoscenza, d’ispirazione e d’azione.

Così il mondo vuoto e fittizio di quei segni cominciò a vivere dentro i Thaliti, acquistandovi una misteriosa e molteplice realtà soggettiva; a mano a mano gonfiandosi, questa loro visione interiore cominciò a straripare all’esterno, diventando col tempo l’unica paralizzante realtà, cui tutto venne subordinato e riferito. Per una misteriosa ingiunzione, infatti, i Thaliti cominciarono a riprodurre le stele, costruendo a loro immagine e somiglianza un mondo imputrescibile e duraturo, fatto di teorie, di dottrine, di statue, di edifici, di macchine, di automi. Questa riproduzione delle lapidi si venne via via sovrapponendo, come una pellicola aderente e impermeabile, al mondo in cui avevano fino allora vissuto, e cominciò lentamente a soffocarlo.

Alcuni vogliono che questo mondo fabbricato, questa rappresentazione materiale delle formule e dei segni contenuti nelle lapidi fosse l’essere informe che dal suo carcere aveva un tempo lanciato la rauca invocazione nella mente di chi si accostava alle stele. Questo era il modo lentissimo ma sicuro che esso aveva trovato per farsi liberare dal sasso, per trovare una sua realtà corporale compiuta e articolata. Certo è che la riproduzione delle lapidi cominciò ad assumere il ritmo e l’andatura di un lavoro coatto: dall’allegrezza i Thaliti passarono ad una tranquilla indifferenza, poi ad una penosa inquietudine, infine alla preoccupazione e all’angoscia. L’opera procedette sempre più spedita, quasi convulsa; il simulacro delle lapidi o del suo oscuro abitatore non cessò di espandersi.

Ma era necessario che gli uomini a un certo punto scomparissero? Alcuni sostengono che la quinta lapide, con quella sua scrittura sfuggente, brulicante e assoluta, rivelasse (perché tutto è nelle lapidi) che ad uno stadio abbastanza avanzato del processo di riproduzione gli uomini non sarebbero più stati necessari per continuarlo.

Ora in quel mondo dove tutto è inalterabile, dove macchine perfette compiono con demente regolarità funzioni inutili e complicate, dove le giornate si avvolgono su sé stesse in ruote possenti e silenziose che non perdono mai gli appuntamenti fissati, ora a Lamed-Thal non esiste più nessuno che ami, che soffra, che sbagli e che perdoni. Thal è davvero diventata «la città lucente vuota d’uomini» ricordata nelle leggende della sua infanzia.

Poiché tutto procede dalla mente e dal cuore di Ctul, perché – se è lecito indagare la volontà degli dèi – perché egli ha guidato i Thaliti al rinvenimento, alla decifrazione e alla delirante riproduzione delle lapidi? Nella notte immemore in cui essi sono precipitati, nel «lago di tranquillità» in cui essi sono affondati per «raggiungere Ctul nella sua pace», sono gli uomini più felici di quando, al tramonto, finito il lavoro dei campi, vedevano alzarsi dai comignoli di Lamed-Thal il fumo delle loro povere cene? Chi potrà scendere nel loro cuore d’un tempo, chi potrà dar loro un’altra occasione di scelta?