Le cinque piaghe che affliggono l’America Latina
21 Ottobre 2007
Negli scorsi giorni molti giornali hanno ricordato
l’anniversario della morte di Ernesto “Che” Guevara, un rivoluzionario che ha
attraversato l’intera America latina: dall’Argentina natale alla Cuba della
dittatura castrista, fino alla morte in Bolivia. Ma non si capirebbe nulla di
Guevara e delle perduranti difficoltà dell’America centro-meridionale se non si
collocasse quella vicenda e il suo mito sempreverde all’interno della ben più
complessa vicenda di un continente tanto affascinante quanto difficile.
Chi voglia riflettere sulle radici più profonde di tale vicenda dispone
oggi di uno strumento straordinario. Per iniziativa dell’Istituto Bruno Leoni è infatti
disponibile in italiano un corposo saggio (Libertà per l’America latina.
Come porre fine a cinquecento anni di oppressione dello Stato, edito da
Rubbettino e Facco, in vendita al prezzo di 15 euro, pp. 318) scritto da Alvaro
Vargas Llosa, uno studioso che a causa delle sue idee non può più tornare nella
propria città – Lima – e che oggi vive e lavora in California, dove dirige il
“Center on Global Prosperity” di uno tra i maggiori think-tank libertari
americani, l’Independent Institute.
Introdotto da una brillante prefazione di Alberto Pasolini Zanelli, questo
volume è senza dubbio destinato a lasciare il segno. Figlio del grande
romanziere peruviano Mario, con tale lavoro Vargas Llosa indaga le cause del
fallimento epocale di un intero continente unendo la riflessione storica,
l’analisi sociologica e la critica economico-politica. Il risultato è qualcosa
di assolutamente convincente e di cui da più parti si avvertiva la mancanza.
Al termine della sua riflessione Vargas Llosa giunge a una conclusione. La
sua tesi, infatti, è che l’intera storia dell’America latina sia stata segnata
– fatta eccezione per qualche limitata parentesi – da ordinamenti
politico-sociali intimamente illiberali che a suo giudizio sono sempre stati
segnati da questi cinque specifici elementi: il corporativismo, un
mercantilismo statale di stampo colbertista, il privilegio di ceto o di
partito, la redistribuzione delle risorse e – quale conseguenza di tutto ciò –
la politicizzazione del diritto.
Secondo Vargas Llosa, se i tratti “tragici” di questa società sempre
sull’orlo del baratro, e ripetutamente attraversata da dittature e tensioni
violente, permangono costanti attraverso i secoli ciò è conseguenza del fatto
che in America latina hanno una grande facilità a prevalere i leader più
demagogici, di destra o sinistra, e le ideologie ostili alla libertà
individuale.
Tutto inizia, come l’autore mostra molto bene, nell’America pre-colombiana:
tra gli Incas, i Maya, gli Aztechi e gli altri gruppi etnici che popolavano il
continente americano prima dell’arrivo degli europei. Tutt’altro che timoroso
di apparire politicamente scorretto, Vargas Llosa rigetta l’immagine
convenzionale che vorrebbe dipingere gli indigeni quali interpreti di civiltà
pacifiche che sono state travolte dall’arrivo di spagnoli e portoghesi. Al
contrario, quelle pre-colombiane erano società feroci e disumane. Come si può
leggere nel volume, nell’America centrale e meridionale che precedeva l’arrivo
degli europei “la persona non era una persona. L’uomo, o la donna, era innanzi
tutto un ingranaggio parte di un meccanismo più grande”.
Quel mondo era caratterizzato dai sacrifici umani, dallo sfruttamento
sistematico, dal dominio dei piccoli gruppi organizzati attorno all’imperatore
(che spesso, come nel caso degli Incas, era considerato una divinità).
Criticare così aspramente le società precolombiane non vuol dir certo, per
questo studioso libertario, difendere ciò che è stato fatto dai conquistadores.
Al contrario, dopo aver tratteggiato l’oppressione indigena l’autore si
sofferma sull’oppressione iberica, evidenziando come su quel terreno
sociale già così segnato da logiche di dominio gli europei abbiano collocato
istituzioni (quelle delle modernità statuale) che hanno finito per rafforzare e
sistematizzare la rapacità del ceto politico. Le opposizioni a tale dominio non
mancarono (da Francisco de Vitoria a Domingo de Soto, da Francisco Suarez a
Luis de Molina), ma non riuscirono ad avere la meglio sul potere istituito.
Il proseguo della storia latinoamericana, quindi, si spiega facilmente come
sviluppo e continua reinterpretazione di questa struttura sociale dominata dal
privilegio e dal rigetto dei diritti individuali. Quando il colonialismo lascia
il posto al nazionalismo e quando i governatori scelti nelle capitali europee
vengono scalzati dai libertadores locali, ancora una volta è la logica
del potere a prevalere su quella della libertà.
Il nuovo repubblicanesimo ottocentesco non sarà meno colbertista e meno
mercantilista dei sistemi che l’avevano preceduto, né le cose cambiano quando –
specie nel Novecento – il continente inizia ad essere penetrato dalla
propaganda socialista. A tale proposito una sintesi formidabile di molti
aspetti della vicenda latinoamericana si può ritrovare nel peronismo, apparentemente
confusa (ma in realtà perfettamente coerente) miscela di autoritarismo,
collettivismo e demagogia.
Anche se viene tratteggiata come un continente vittima del capitalismo e
quindi bisognosa di una “liberazione” dalle logiche del mercato e del profitto,
l’America latina ancora oggi attende una svolta in senso liberale, che liberi
le molte forze represse e permetta il dispiegarsi delle numerose energie
imprenditoriali finora soffocate dalla tassazione e dalla regolamentazione.
Moltissime responsabilità, ovviamente, vanno attribuite ai politici
“moderati”, tutti ugualmente timorosi di apparire impopolari e quindi orientati
a lasciare inalterato il quadro di ingiustizie e sopraffazioni che sta alla
base del fallimento anche economico dell’intera area. Se un “fallimento” del
capitalismo in America latina c’è stato, allora, esso è da riconoscere nel
fatto che quasi nessuno ha avuto il coraggio e la sensibilità di introdurre
quelle riforme contro quelle “cinque piaghe” tanto ben descritte dallo studioso
peruviano. Non sono fallite le ricette del mercato, ma si sono dimostrati
assolutamente restie a impiegarle proprio quanti avrebbero dovuto farlo.
In questo modo, l’economia non è mai veramente decollata e l’ordine sociale
rimane caratterizzato dal parassitismo e dalla rendita di posizione. Prima
ancora che essere economico, allora, il problema è culturale e giuridico, dato
che in Argentina come in Venezuela, in Nicaragua come in Brasile, ciò che più
manca è un condiviso rispetto per i diritti, le libertà e le proprietà altrui.
Per Vargas Llosa, quindi, è di una trasformazione nella direzione del
diritto e del rispetto della persona (quale proprietario, imprenditoriale,
negoziatore, e via dicendo) che il continente latinoamericano ha urgente
bisogno. Se non vuole essere definitivamente distrutto – nella sua moralità
prima ancora che nella sua capacità produttiva – dai nuovi caudillos: si
chiamino Chavez o Castro, Kirchner o Morales.
Alvaro Vargas Llosa, Libertà per l’America latina. Come porre fine a
cinquecento anni di oppressione dello Stato, (Soveria Manelli – Treviglio:
Rubbettino-Facco, 2007, pp. 318, € 15,00).