Le correnti della Lega superano quelle del Pdl. Ed è guerra per il dopo-Bossi
15 Luglio 2010
Se c’è un leghista che da due anni a questa parte, dall’aprile del 2008 quando il Berlusconi quater si è insediato a Palazzo Chigi, miete successi su successi, quello è Roberto Maroni. Capi dei capi in manette; maxi operazioni portate a segno contro mafia, camorra e n’drangheta; cupole scoperte e messe a nudo a suon di arresti; perquisizioni e blitz degne di una delle migliori puntate di Miami Vice, sistematicamente accompagnate da una incredibile copertura mediatica. Roberto Maroni si muove e porta a casa risultati.
A dire la verità, già come ministro del Welfare, se la cavò piuttosto bene districandosi nel difficile mondo previdenziale. Mise in piedi una riforma che allora incassò il plauso unanime di diversi organismi internazionali (e non solo) perché lungimirante. Così, ieri come oggi, grazie a un mix di qualità e strategia – è sobrio, capace, ponderato, misurato, efficace – acquista sempre più credibilità come uomo politico (perfino come musicista si dice abbia il suo bel seguito).
E’ anche per questo che immaginando la futura leadership della Lega c’è chi vede Roberto Maroni come successore di Umberto Bossi o, più ancora, come futuro presidente del Consiglio laddove un giorno si aprisse per la Lega questa possibilità. Ma c’è un “ma”. Il ministro dell’Interno piace un po’ troppo a via Solferino e alla sinistra, tanto che in ambienti di palazzo c’è addirittura chi lo identifica nel potenziale “Gianfranco Fini” della Lega, colui che potrebbe iniettare il virus di sinistra dentro il Carroccio. Una “nomea” che certo non gioca a suo favore. Tuttavia, quella di Maroni alla guida del Carroccio è solo una tra le tante eventualità, perché in realtà il totonomine per il vertice della Lega è partito da un pezzo e interessa da vicino molti esponenti di spicco del partito: anche lì, correnti, divisioni interne, rancori e sgambetti non mancano.
Del resto, la guida di un partito che in questo momento gode di un elevatissimo potere di interdizione su tutto, fa gola. Certo, un governo nel quale la Lega rappresenta l’azionista privilegiato non può avere vita lunga e i parlamentari di riferimento del Carroccio lo sanno, ma si tratta sempre di una forza politica che in venti anni ha dimostrato di sapersi rinnovare facendo leva su un rapporto “contrattuale” su temi che interessano molto da vicino il tessuto produttivo del Nord e quindi il proprio elettorato. La Lega, oggi più che mai, rappresenta una forza politicamente importante, radicata sul territorio, capace di portare a termine le proprie battaglie, coerente con il proprio bacino elettorale di riferimento. Ma nonostante i tentativi di tenere dritta la pianta, perlomeno agli occhi degli esterni, il germe della successione ha già messo radici.
I rumors, almeno fino a due settimane fa davano in forte ascesa anche un altro Roberto, stavolta Calderoli, impegnato in un lavorìo incessante che lo avrebbe potuto portare ancora più in vetta rispetto all’attuale incarico di ministro per la semplificazione normativa. A differenza di Maroni, che si tiene lontano dalle diatribe politiche perfino quando avrebbe gioco facile, Calderoli è un iper-presenzialista (sui media). Maestro di boutade, dove c’è da metter bocca lui è presente, quando c’è da sparare ad alzo zero contro questo o quello, lui impugna il revolver e preme il grilletto. Incurante delle conseguenze. Ma di recente ha compiuto un passo falso: l’aver caldeggiato la nomina di Aldo Brancher a ministro gli ha fatto pagare un caro prezzo. Brancher resterà nella storia dei governi della seconda Repubblica come il ministro più “veloce” del Paese (17 giorni) e Calderoli sconterà il fatto di aver organizzato la nuova nomina senza il beneplacito del gran capo Umberto Bossi. Il periodo di “purgatorio” padano per lui, sembra già scattato.
Che qualcosa si sia rotto nella coriacea testuggine padana lo si capisce dai commenti a mezza voce dei dirigenti ma anche da una certa insofferenza che il popolo di Pontida comincia a manifestare nei confronti del “capo” considerato un po’ troppo “romanizzato” (vedi il capitolo del federalismo, ma anche la nuova grana delle quote latte).
“La non è più la Lega" si lascia scappare una camicia verde dell’ala “dura e pura” del movimento, attento a non violare più di tanto la consegna ferrea del silenzio che è la regola prima del codice padano e per certi aspetti uno dei punti di forza sui quali il Senatur ha sempre capitalizzato il consenso. Eppure, nonostante l’immagine da dare all’esterno, i malumori che covano sotto la cenere oggi cominciano ad emergere anche tra gli integralisti più convinti.
Le tensioni oltre-Po vengono fuori alla vigilia delle elezioni regionali, quando il Senatur decide di candidare il figlio Renzo a Brescia stringendo un accordo con i Camparini, famiglia di peso (politico) nel territorio. E’ a quel punto che suona il campanello d’allarme tra i vertici di via Bellerio, perché la mossa del capo viene letta come un ostacolo e come il segnale che i curricula che ciascuno della cerchia ristretta di Bossi può vantare – messi in piedi in anni e anni di militanza nel silenzio, di impegno sul territorio, di costruzione di una rete di rapporti oggi solidissima col mondo imprenditoriale e finanziario del Nord – non è la chiave che conta per entrare nella stanza dei bottoni. E che anzi, il cammino si prospetta di gran lunga più agevole per chi porta il cognome del "capo".
Al punto che – osservano alcuni leghisti doc – l’ultima novità in ordine temporale della quale si parla con una certa insistenza riguarda la corsa di Renzo Bossi alla guida del coordinamento federale dei giovani padani. Nell’ultimo consiglio federale si sarebbe affrontato il tema della soglia di età per i quadri del movimento giovanile arrivando a fissarla ai trent’anni. Il che significa che per l’attuale leader delle giovani camicie verdi (Grimoldi) si profila un passaggio di testimone.
Ma la novità non è passata inosservata, specialmente a Varese (roccaforte dell’attuale coordinatore) e soprattutto se associata all’eventualità che su quella poltrona possa salire il consigliere regionale Bossi jr. Anche perché, a spingere in questa direzione sarebbe il presidente dei deputati leghisti Marco Reguzzoni (la cui promozione alla guida della consistente rappresentanza del gruppo a sua volta ha creato non pochi maldipancia tra coloro che aspiravano al ruolo lasciato vacante da Cota), che nei ranghi del partito viene dato come molto vicino alla famiglia Bossi e che i più "scafati" nel partito vedono impegnato a scalzare i colonnelli, in particolare Maroni e Giorgetti. E da questo punto di vista, sostenere l’ascesa del figlio del Senatur ai piani alti di via Bellerio significa operare un fuoco di sbarramento all’avanzata dei big storici.
La guerra di posizione dentro il Carroccio riguarda Maroni, Calderoli, Giorgetti (uomo ombra del Senatur e personaggio-chiave nei settori economia, finanza, imprese) e Castelli (in posizione più defilata dopo la sconfitta elettorale subita a Lecco). Tutti lombardi ma in realtà ciascuno ben piantato nella sua “roccaforte”: Milano, Brescia e Varese è il triangolo delle Bermuda dove si consuma la partita a quattro. C’è poi l’ala veneta che con la Lombardia ha rivalità e sotilità storiche, guidata da due esponenti di spicco del movimento, pure loro ben posizionati sulla rampa di lancio: Luca Zaia, già ministro all’Agricoltura (all’epoca tra i più gettonati del governo Berlusconi) e il sindaco di Verona Flavio Tosi. Una falange determinatissima a picconare lo strapotere dei lombardi pure se tra i due leghisti rampanti non manca una buona dose di rivalità. Tosi infatti non ha ancora digerito che sia stato Zaia, naturalmente per volontà del “capo”, a soffiargli la candidatura alla successione di Giancaralo Galan.
In Piemonte "l’era Cota" non è da sottovalutare. Perché se il governatore centrerà gli obiettivi prioritari del programma elettorale col quale ha vinto le regionali, è facile pensare che "userà" il modello del buon governo per passare all’incasso, puntando alla poltrona più alta di via Bellerio. Il fatto che se ne stia in Piemonte non vuol dire che Roberto Cota abbia abbandonato l’ambizione (legittima) che fino a pochi mesi fa coltivava stando a Roma, tra una riunione e l’altra del "suo" gruppo parlamentare. Non solo, ma dal suo osservatorio regionale, Cota può consolidare il suo "peso" politico nell’establishment del partito.
Nella galassia leghista non è poi da sottovalutare l’ala più movimentista e oltranzista capitanata dall’europarlamentare Matteo Salvini che può contare sull’appoggio della giovane classe dirigente (amministratori, consiglieri provinciali, comunali) che si sta affacciando sulla scena politica, desiderosa di bruciare le tappe prima e meglio che si può. Fin qui il quadro interno al Carroccio racconta molto di quello che all’esterno non si vede e non si vuole fare vedere : nella Lega si sta lavorando al “dopo” e, Bossi permettendo, tutto lascia presagire che sarà una sfida all’ok Corral.