Le due elezioni, l’Atlantico e il ritorno della Storia

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Le due elezioni, l’Atlantico e il ritorno della Storia

Le due elezioni, l’Atlantico e il ritorno della Storia

26 Giugno 2023

Non restano che 200 giorni a separare l’Occidente dal 2024, anno che potrebbe risultare politicamente decisivo – sotto molteplici aspetti – per la determinazione delle dinamiche che caratterizzeranno, in una traiettoria di lungo periodo, una nuova fase delle relazioni euro-atlantiche. Alle elezioni europee del prossimo 9 giugno, consultazione importante e non solo sul piano cerimoniale, seguiranno le attesissime presidenziali americane di novembre e, di conseguenza, l’ascesa di un nuovo – o forse non del tutto – inquilino della Casa Bianca. Ogni pronostico su candidati, schieramenti e, a maggior ragione, esiti rischia di rivelarsi grossolanamente prematuro. Poiché, tuttavia, in politica rare sono le sorprese gradevoli, è bene non trovarsi impreparati a ogni possibile scenario. Un’indagine politica sul “ritorno della storia”, fra ambizioni globali, “europeità” in crisi e nuove sfide al retaggio valoriale della democrazia liberale.

Atlantico: Le elezioni europee

Il 9 giugno 2024, i cittadini di tutta l’Europa saranno chiamati a esprimersi per eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo, in concomitanza con la regolare scadenza del mandato quinquennale. Chi osserva e commenta gli appuntamenti elettorali si limita tipicamente ad affermazioni non prive di un fondo di realismo, ma spesso connotate da una sconcertante banalità, come quella secondo cui tutti sarebbero portati a considerare le elezioni europee come un appuntamento di politica interna, votando sulla base di vari assilli polemico-politici interni e senza alcuna coscienza del significato intrinseco di questa consultazione così particolare. Sotto un profilo puramente pragmatico, effettivamente, tale convinzione trova un parziale riscontro nel fatto che, fra le competenze dell’Unione, la Politica Estera e di sicurezza comune (PESC) sia ancora un “dominio riservato”, a esclusiva titolarità intergovernativa e, segnatamente, del Consiglio.

Se dal nuovo Parlamento non dipenderà pertanto il ruolo dell’Europa e della sua proiezione istituzionale nel mondo di domani, è però meritevole di considerazione la possibilità che dall’esito di quelle urne emerga una nuova idea di Europa, più consapevole della posizione da esercitare in un sistema internazionale soggetto a sfide sempre più intense. In quest’ottica è allora opportuno interpretare il progetto, coltivato da Giorgia Meloni e in costante intesa con il presidente del Partito Popolare Europeo Manfred Weber, di un avvicinamento strategico fra il gruppo del Conservatori e Riformisti (ECR), presieduto dall’attuale Capo del governo italiano, e la multiforme famiglia dei Popolari, la quale intende superare la fase consensuale dell’alleanza con i Socialisti & Democratici ispirata dalla Große Koalition dei governi di Angela Merkel.

I giochi europei

In quest’ottica, è certo comprensibile, ma non sorprendente, che Emmanuel Macron, che di un tale accordo non sconterebbe che l’amaro tributo, guardi con spregio a una tale iniziativa, e cerchi di arginarla ricorrendo a un armamentario retorico fatto di nuove chimere: l’autonomia strategica dell’Unione Europea, un “impero napoleonico nel XXI secolo” – e antiche suggestioni quali, per esempio, la “terzietà” europea fra Stati Uniti e Cina. Il tutto, naturalmente, in aperta contrapposizione alla naturale propensione euro-atlantica del concerto fra Popolari e Conservatori, nondimeno appoggiato su presupposti realistici (e lontani dalle illusioni unipolari degli anni Novanta) ma di più concreta prospettabilità. I negoziati sono operativi ed evolvono tramite contatti ai massimi livelli per entrambe le parti, senza lasciar trapelare ulteriori aspettative. D’altro canto, tutto tace nelle altre stanze della politica europea: il terremoto provocato dalla frantumazione del governo di Pedro Sánchez ha gettato nuove ombre lugubri sul gruppo dei Socialisti & Democratici, già messo alla prova dallo scandalo Qatargate e dalla crisi di fiducia dell’esperimento di coalizione semaforica in Germania.

Il ritorno della Storia

Ristabilire una “certa idea dell’Europa” emerge dunque come necessità d’improrogabile urgenza soprattutto in ragione delle turbolenze che sembrano abbattersi senza soluzione di continuità sulle nuove traiettorie degli assetti globali. Non è stato necessario aspettare il modico compromesso al ribasso dell’accordo raggiunto  sulla ripartizione dei migranti per disvelare agli occhi di tutto il mondo la nuova crisi di coesione che serpeggia in Europa. Nonostante la comune posizione degli Stati membri sulla guerra in Ucraina, le liti all’ordine del giorno lasciano supporre che il Novecento – il secolo in cui più si è consumato il rientro della centralità europea – non abbia esaurito le proprie risorse. Con i propri azionisti intrappolati da reciproche querelle interne, il costrutto comunitario sembra essersi pericolosamente adagiato sulla tendenza di crisi che vanno conoscendo tutte le principali organizzazioni internazionali, quasi a volersi rassegnare a un declino forse non irreversibile, ma certamente connotato da un destino tanto amaro quanto “un po’ meno peggio” di quello saggiato, per esempio, dalle Nazioni Unite. ù

Una dimensione economicamente disarmonica e politicamente anarchica, caratterizzata da nient’altro che un’approfondita divergenza fra gli Stati, come ha giustamente scritto Luca Picotti sul Grand Continent. Senza un preciso indirizzo d’azione, quel poco che resta dell’Europa, che da sistema regionale è diventata il centro d’irradiazione della contemporaneità, potrebbe vedersi condannata a naufragare nel mare di una realtà sempre più rarefatta e in costante tensione. Il depotenziamento delle istituzioni comunitarie non è, attualmente, una diradata velleità, ma l’anelito di molti Paesi che già rispecchiano nel futuro le proprie ambizioni di potenza, Polonia in primis. È ardua cosa immaginare razionalmente come un’ipotetica Commissione di stampo più marcatamente conservatore potrebbe approcciare – eventualmente d’intesa con un Consiglio “amico”, data l’attuale congiuntura politica – il problema dell’Unione nel mondo e dunque scongiurare lo scenario succitato.

Atlantico: Gli Usa tra Biden e Trump

Tuttavia, tale configurazione suggerirebbe sicuramente un virtuoso elemento di chiarezza ai tanti che, pur volendo chiamare in Europa, non sanno che numero
comporre, a partire dai nostri alleati (e amici) più vicini. Sull’altra sponda dell’Atlantico, mai come ora pare concretarsi un disegno di “ritorno della storia”; in misura di investire i rudimenti delle euforie clintoniane e – cose a noi ben più care – la democrazia liberale e i suoi linguaggi. Certo, la politica estera degli Stati Uniti resta ancora pregna di ambizioni globali e l’impegno americano in Ucraina funge da straordinario testimone. Il 5 novembre 2024, infatti, anche i cittadini USA si recheranno alle urne per battezzare il loro nuovo, o forse non del tutto nuovo Presidente. Le più recenti iniziative di Joe Biden, fra cui l’Inflation Reduction Act e il Chips Act, possono infatti essere lette e capite solo alla luce di alcune considerazioni di politica interna americana. Non appartiene al regno del mistero che, malgrado gli apprezzamenti di cui gode presso le cancellerie europee, l’ottuagenario inquilino della Casa Bianca si ripresenti a un elettorato estremamente polarizzato e indisposto a rinnovare il suo mandato in maniera incondizionata.

La sciagurata spavalderia con cui l’amministrazione democratica ha sfiorato, e d’un soffio evitato, il primo default della storia statunitense non è stata dimenticata. Dal punto di vista degli alleati europei, un certo senso pratico vuole che la prospettiva da contemplare non sia quella dell’isolazionismo (che gli USA non vogliono né possono permettersi), quanto piuttosto quella di una selezione degli impegni più focalizzata sul grande confronto con la superpotenza cinese nella regione indo-pacifica. Il disegno di un’eventuale amministrazione repubblicana “non Trump”, da tenere presente anche in caso di una rielezione dell’attuale Presidente, potrebbe essere per l’appunto improntato a non togliere più “tutte” le castagne dal fuoco all’Europa – nei Balcani, per esempio, o sulla sponda sud del Mediterraneo – ma ricercare convergenze proficue sul piano economico e politico e suddividere le responsabilità, nei teatri di crisi, con un’Unione più autonoma, soprattutto sul piano militare.

La lezione di Aron

Una parabola, quest’ultima, lungo la quale l’Unione dei sogni di Meloni e Weber non potrebbe che trovarsi a proprio agio. Corre l’obbligo di riscontrare come, a tal proposito, il nuovo innalzamento delle spese militari dei Paesi europei – oltreché risposta inderogabile a una necessità storica contingente – sia anche uno dei principali successi dell’amministrazione di Joe Biden. L’assertività dell’Impero Celeste, infatti, non cessa di ricordare agli strateghi americani come il nuovo baricentro della politica estera degli Stati Uniti possa essere solo la regione indo-pacifica, vero e proprio assillo dei documenti dell’amministrazione di Donald Trump. Su questo fronte, la continuità affermata da Biden in una chiave più conciliante, soprattutto tramite il rilancio delle alleanze, appare molto più rasserenante e, soprattutto, fungibile ai fini della costruzione di una vera e propria strategia euro-atlantica. “La storia è tragica”, e non sembra esserci altra frase possibile per descrivere gli anni Venti di questo secolo, spaventosamente affini al medesimo decennio del secolo scorso.

Se un pensatore liberale eclettico e anticonformista, nonché autenticamente europeo, come Raymond Aron potesse ancora parlare oggi, chiederebbe conto delle critiche ricevute ai propri detrattori. Una nuova fase delle relazioni euro-atlantiche s’annuncia necessaria, in concomitanza con il progressivo sfaldamento di tutti gli istituti e i punti di riferimento del “timone” occidentale: dalla crisi dell’associazionismo sovranazionale ai nuovi stilemi della politica industriale, connessa alle difficoltà della globalizzazione e alle avvisaglie di “de-dollarizzazione”, il vento sfidante soffia soprattutto dai BRICS. Per questo motivo, ma non solo, la riscossa occidentale non sembra più posponibile. Laddove non sarà l’Occidente a giocare le proprie carte, non resteranno certo spazi vuoti sul grande tavolo del sistema internazionale. Per questo, il 2024 elettorale potrebbe essere una grande opportunità, ma anche un drastico segno premonitore: senza un fisiologico e necessario adeguamento ai mutamenti politico-internazionali, Europa e Stati Uniti rischiano di essere i primi a fare le spese di un brusco “ritorno della storia”. L’ora è
grave, l’incombenza delle sfide non lo è di meno.