Le elezioni in Honduras hanno salvato il Paese dalla minaccia di Chávez
30 Novembre 2009
A meno che nei prossimi 31 giorni non accada qualcosa di sconvolgente in Occidente, la più grande vicenda regionale del 2009 sarà quella dell’Honduras, un piccolo stato che è riuscito a respingere le aspirazioni coloniali dei suoi più potenti vicini e a preservare la sua Costituzione.
Le elezioni di ieri, indette per scegliere il nuovo presidente e per rinnovare il Congresso, si sono svolte come previsto e senza incidenti, e rappresentano il coronamento di questa battaglia.
Secondo i sondaggi pre-elettorali Porfirio Lobo, candidato del Partito Nazionale, era il favorito. In realtà, il nome del vincitore non è poi così rilevante. L’esito di queste elezioni è infatti un trionfo nazionale di per sé ed è una vittoria per tutta quella gente che spera ancora nella libertà.
Il fatto, poi, che gli Stati Uniti abbiano dichiarato di voler riconoscere la legittimità di queste elezioni dimostra che la verità finalmente si è fatta strada anche nella Casa Bianca. Se è vero che per Chávez questa sconfitta non si può definire una “Caporetto”, la posizione dell’Honduras rappresenta comunque un considerevole ostacolo nell’agenda espansionista del leader venezuelano.
In tutta questa vicenda il Brasile, l’Argentina, il Cile e la Spagna sono solo alcuni degli sconfitti perché tutti hanno fatto del loro meglio per impedire le elezioni. Spronati dal loro zelo, nelle settimane precedenti al voto, i militanti che si trovavano in Honduras hanno incominciato a far esplodere piccole bombe in tutto il Paese. Speravano che in un clima di terrore si sarebbe ridotta l’affluenza alle urne, riuscendo così a delegittimare il processo elettorale. Ma hanno fallito. La partecipazione popolare di ieri è sembrata buona almeno quanto quella delle ultime elezioni presidenziali. A quanto pare, in alcuni seggi sono persino rimasti senza l’inchiostro necessario per intingere le dita degli elettori.
I socialisti latini hanno tentato di screditare la democrazia honduregna come parte dei loro sforzi per imporre il ritorno del presidente deposto Manuel Zelaya. Entrambi gli schieramenti sapevano bene che, se questo fosse accaduto, la procedura elettorale sarebbe stata in pericolo.
Zelaya aveva già fatto intravedere le sue intenzioni quando, lo scorso 28 giugno, organizzò una manifestazione per far passare un referendum popolare con lo scopo di annullare le elezioni e riuscire a rimanere in carica per più tempo. Siccome si trattava di un atto illegale, la Corte Costituzionale ordinò il suo arresto e, poco dopo, il Congresso sfiduciò l’ex presidente per aver violato la Costituzione.
Secondo quanto mi ha rivelato un funzionario del Consiglio elettorale che ho intervistato a Tegucigalpa due settimane fa, quando Zelaya era ancora presidente si rifiutò di trasferire al Consiglio che si occupa dell’organizzazione delle elezioni in Honduras i fondi preventivati e predisposti dalla legge per i lavori preparatori al voto. In altre parole, non voleva che venissero svolte delle elezioni libere.
Neppure Chávez le voleva. Durante il governo Zelaya l’Honduras era diventato un membro del “Bolivarian Alternative for the Americas” (ALBA), di cui fanno parte anche Cuba, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. Se il potere fosse finito in altre mani, la membership honduregna sarebbe stata fortemente a rischio.
La scorsa settimana un funzionario del governo mi ha riferito che l’Intelligence honduregna ha scoperto che, la notte del referendum pianificato in giugno, Zelaya aveva allestito alcuni preparativi per dare il benvenuto nel Paese a tutti i presidenti appartenenti all’ALBA. A quanto pare, era stato ordinato cibo per abbuffare più di 10mila persone.
In realtà, oggi l’ALBA influisce appena nell’“Organization of American States” (OAS) e per Chávez non è stato difficile controllare il Segretario Generale José Miguel Insulza. Il socialista cileno vuole disperatamente essere rieletto nel 2010 mantenendo la sua carica all’OAS. Appena un mese prima della destituzione di Zelaya, Insulza cercò di revocare il divieto di aderire all’organizzazione imposto a Cuba. Quando Zelaya venne destituito, Insulza seguì per filo e per segno le direttive che giungevano da Caracas per soffocare la sovranità honduregna.
Per sua sfortuna, la pretesa incapacità dell’Honduras di tenere delle elezioni legittime – come affermavano gli esponenti della sinistra – si è scontrata con la realtà dei fatti. In primo luogo, i candidati sono stati scelti durante le primarie del novembre 2008 alla presenza degli osservatori dell’OAS, che definirono il processo elettorale “trasparente e partecipato”. In secondo luogo, tutti i candidati presidenziali – tranne un esponente di un piccolo partito di estrema sinistra – volevano che le elezioni proseguissero. In terzo luogo, sebbene Insulza continuava a definire la rimozione di Zelaya “un colpo militare”, i soldati non hanno mai preso in mano le redini del Governo. Infine, il tribunale elettorale indipendente – nominato dal Congresso prima della destituzione di Zelaya – è andato avanti con le fasi elettorali predefinite dalla Costituzione per poter svolgere le votazioni. All’indomani dalle elezioni Insulza – che intanto continuava a dichiarare che l’OAS non avrebbe riconosciuto l’esito del voto – si trovava a presiedere un’OAS ormai screditata.
Dopo quattro mesi, finalmente l’amministrazione Obama ha capito di aver commesso un grave errore. Bisogna riconoscerle il merito d’aver capito che le elezioni erano la migliore soluzione e d’aver promesso che avrebbe riconosciuto l’esito elettorale, nonostante le forti pressioni che giungevano dal Brasile e dal Venezuela. Il presidente Obama è salito al potere con l’intenzione di mantenere una politica estera multilaterale. Forse questa esperienza gli insegnerà che la libertà spesso ha dei nemici.
Circa 400 osservatori stranieri provenienti dal Giappone, dall’Europa, dall’America Latina e dagli Stati Uniti sono andati in Honduras per le elezioni di ieri. Il Perù, il Costa Rica, il Panama, la Germania e il Giappone hanno già annunciato che riconosceranno l’esito del voto. L’aumento dei Paesi che hanno dato il suo sostegno dimostra che negli ultimi cinque anni gli honduregni non erano così soli come pensavano. Una buona parte del mondo appoggia il loro desiderio di salvare la democrazia dal “Chavismo” e di vivere liberi.
Tratto dal Wall Street Journal©.
Traduzione di Alma Pantaleo e Fabrizia B. Maggi.