Le élites (media inclusi) non hanno ancora capito i populismi

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Le élites (media inclusi) non hanno ancora capito i populismi

08 Gennaio 2019

Nel dicembre del 2017, il Financial Times, con Martin Sandbu, firma di punta del giornale londinese, ipotizzò che se il 2016 fu l’anno della vittoria dei populismi nel mondo, e il 2017 l’anno della rivincita dei liberalismi, il 2018 sarebbe stato una sorta di redde rationen, una resa dei conti, tra le due ideologie (intese come logica delle idee). Come accade a tutti coloro che si avventurano nella futurologia politica, Sandbu ha clamorosamente steccato sulle previsioni dell’anno che si è appena concluso, che ha visto giganteggiare, su tutti, in Italia il Movimento 5 Stelle e la Lega, e in Brasile il candidato presidenziale vincente Bolsonaro (per non parlare del fenomeno dei “gilet gialli”, in Francia, i quali hanno annunciato, nei giorni scorsi, di volersi costituire come partito politico). Il punto è che il Financial Times ci riprova. Tant’è che questa volta, con un’altra firma di prestigio del giornale della City, Gideon Rachman, ritenta, scrivendo che «il 2019 ha buone chance di essere l’anno in cui il progetto populista si sbriciola nell’incoerenza, in quanto diventa sempre più chiaro che le cattive idee hanno cattive conseguenze».

Anche se questa volta il newspaper si mostra più cauto e non dà affatto per sicuro il concludersi della parabola gentista. Perché, se da un lato, secondo alcuni, le due grandi vittorie populiste del 2016, la Brexit e la presidenza Trump, stanno mostrando delle controindicazioni (anche se Trump avrà la meglio sul Congresso, nello shutdown, dichiarando lo stato d’emergenza, ottenendo quindi il via libera alla costruzione del muro che separerà parte degli Usa dal Messico), da un altro lato ci sono tre elementi da considerare prima di recitare il De profundis. In primis, i dati economici e le forze culturali che hanno alimentato il populismo – come l’afflusso dei migranti, in Europa, l’insicurezza economica, l’affermazione di una ineludibile identità contro lo sradicamento globalista – sono ancora lì, ancora vivi. E poi, se negli Stati Uniti e nel Regno Unito c’è un populismo di destra non in forma come in precedenza, ve n’è uno di sinistra che potrebbe invece continuare a crescere nel 2019. Inoltre, come terzo elemento, il populismo è ormai un fenomeno globale, che va «da Brasilia a Budapest e da Roma a Manila», ammette il foglio della finanza d’Oltremanica. In aggiunta, alcuni dei leader populisti, in particolare Bolsonaro e Salvini, potrebbero avere un 2019 di successi.

Economici, nel caso del brasiliano, politici, per l’italiano (che, in caso di successo alle Europee «potrebbe innescare nuove elezioni e consentire alla Lega di emergere come forza politica dominante in Italia»). Certo, prima o poi potrebbe arrivare una «reazione guidata dai mercati» – alias, dell’establishment – (che potrebbe punire anche una versione latina e di sinistra del populismo: il Messico di Andrés Manuel López Obrador). Ma c’è da considerare che se il populismo non se la passa troppo bene, l’anti populismo sta anche peggio, vedi le traversie di Macron, in Francia. Insomma, anche nel 2019 chi non ama il populismo continui a lavorare per un’alternativa credibile, perché «il populismo è nei guai, ma il momento populista non è passato», scrive ancora Rachman. Un appello a quelle élites sempre più distanti dai popoli e sempre più inclini a ciò che i tedeschi definiscono il Lust auf Untergang: il desiderio del tramonto.