Le fanfare della Rai al servizio del referendum di Renzi

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Le fanfare della Rai al servizio del referendum di Renzi

03 Agosto 2016

Non ci vuole il pulitzer per sapere che le nomine dei direttori dei telegiornali Rai rispondano quasi sempre al cencelli della politica, cioè al gioco dialettico e ai rapporti di forza tra i partiti. Ci si può indignare quanto si vuole ma finché la televisione pubblica resterà uno strano animale con le zampe metà sul mercato e metà nel Palazzo le cose non cambieranno. 

Ma quello che sta accadendo in queste ore, mentre si ‘esaminano’ i curricula dei candidati al ruolo di direttore di testata e circolano non senza imbarazzi nomi che già si conoscevano da almeno un anno, è uno strappo alla libertà d’informazione che Matteo Renzi consuma alla faccia degli italiani per una ragione molto semplice: il premier teme sempre di più di perdere il referendum costituzionale, e ha deciso di bruciare i tempi forzando sulle nomine per evitare che qualcuno in tv gli metta i bastoni tra le ruote.

Un paio di giorni fa, Renzi ci ha tenuto a precisare che la strategia del governo sulla consultazione popolare cambierà, che il suo obiettivo è spersonalizzare la battaglia sulla riforma, che il referendum di Renzi e su Renzi non è più tale e che ora bisogna parlare di contenuti e nel merito della riforma. E’ ovviamente quanto gli hanno suggerito i suoi spin doctor, tra cui il noto guru americano Jim Messina. Dopo aver puntato tutto sullo schema o con me o contro di me, il nostro presidente del consiglio fa un clamoroso dietrofront e accusa gli altri (chi?) di voler personalizzare la campagna referendaria. La forma cambia, ma la sostanza no. E il nostro piccolo Erdogan di Rignano sull’Arno, dato che sul referendum si gioca la pelle e non solo la faccia, ha deciso che non tollererà smagliature nella comunicazione: la Rai deve essere totalmente allineata sul Sì.

Se le indiscrezioni dovessero essere confermate, almeno due teste dei direttori dei Tg Rai sono destinate a saltare, in particolare quella alla guida del Tg3 (Bianca Berlinguer) che, insieme a quelle di talk come Ballarò o ad altri professionisti che hanno mostrato autonomia e indipendenza, non sono gradite a Palazzo Chigi.

Nei sondaggi infatti il Sì insegue il fronte del No. Sulla Rete, Internet e i social media, Renzi è stato costretto nei giorni scorsi a rivolgersi agli smanettoni di turno per cercare di recuperare una situazione che vede il No in netto vantaggio. Insomma, l’assedio al Tg3 e al suo telegiornale nasce da un bisogno che è diventata ormai questione di sopravvivenza: il popolo di sinistra, piddino e non solo, sta virando sempre di più verso il No e per il premier e quelli che credevano di avere in pugno l’Italia diventa essenziale piazzare delle bandierine fidate nella rete che almeno in teoria parla(va) al proprio popolo di riferimento.

Con buona pace di merito, competenze, risultati, share e tutto quello che dovrebbe caratterizzare una tv libera e concorrenziale, per il renzismo l’importante è avere dei megafoni nei posti giusti al momento giusto, nei mesi clou della battaglia referendaria, e sempre in attesa di capire quale sarà la data della consultazione sulle riforme. 

Questa spregiudicatezza in realtà non ha nulla di nuovo ma risponde alle solite logiche lottizzatrici e spartitocratiche: un comportamento che stona con quei tweet che Renzi ha scritto al presidente turco Erdogan in difesa della democrazia. Non si può accusare gli altri di regime se poi anche la tua rischia di trasformarsi in una gloriosa marcia al suono delle fanfare Rai.

Ma il premier dovrebbe avere più accortezza visto che ormai il vecchio tubo catodico non è più l’unico mezzo con cui gli italiani si informano o vengono disinformati, e dunque l’ascesa dei custodi dell’ortodossia renziana, nella tv pubblica o in commissione di vigilanza Rai, rischia di trasformarsi in un boomerang per chi aveva promesso “fuori i partiti dalla Rai” assicurando di non voler “mandare a casa nessuno”.