Le “Flottilla” non salveranno Gaza

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Le “Flottilla” non salveranno Gaza

05 Luglio 2010

Uno studio della rivista inglese “Lancet” evidenzia come non sia facile vivere a Gaza dopo l’operazione “Piombo Fuso”, che nel 2009 provocò circa 1.400 morti fra i palestinesi. Secondo il dottor Nahed Mikki, dell’Università di Oslo, un bambino su quattro soffre di malnutrizione, il 6 per cento è rachitico e l’11 per cento anemico. Quasi il 40 per cento delle case sono state distrutte o danneggiate dalla guerra e la popolazione s’ingegna in tutti i modi per ricostruirle, e per avere acqua ed elettricità sufficienti per andare avanti. L’embargo israeliano imposto alla Striscia, nonostante ‘l’alleggerimento’ della stretta dopo il fallito attacco alla Flotilla, rende ‘off limits’ materiali come cemento, plastica, vetro e acciaio. L’economia ristagna, la disoccupazione è oltre il 40 per cento, industrie come quelle della pesca sono andate praticamente distrutte. Per tutto questo, il G8 canadese ha chiesto al governo israeliano di modificare il regime di embargo a Gaza, nella speranza che una mossa del genere possa favorire lo scambio di prigionieri (il caporale Shalit in cambio di centinaia di prigionieri politici palestinesi detenuti nello stato ebraico).

Ma che cosa ha fatto Hamas per migliorare le cose dopo “Piombo Fuso”? Praticamente quello che faceva già prima del conflitto e che costituì il “casus belli” dell’intervento israeliano: nei giorni scorsi, un nuovo missile artigianale è caduto in territorio israeliano, colpendo una fabbrica, per fortuna senza lasciare vittime. Dall’inizio del 2010, secondo l’esercito ebraico, sono oltre 60 i razzi sparati dalla Striscia contro Israele. Non si ricordano prese di posizione altrettanto dure della comunità internazionale sulla questione dei missili che continuano a piombare in territorio ebraico come se nulla fosse. L’attenzione dell’opinione pubblica, d’altra parte, è calamitata dalle condizioni di vita degli abitanti di Gaza. Si parla degli effetti ma senza ricordare le cause. L’offensiva mediatica sempre accesa su Israele, condotta soprattutto in Europa da un potente network dove si uniscono elementi della sinistra occidentale e delle comunità islamiche radicate nel vecchio continente, impedisce di cercare nuove soluzioni e nello stesso tempo sfavorisce qualsiasi approccio diplomatico più o meno indiretto fra Hamas e Israele. “La strategia più efficace per fermare una occupazione sempre più sanguinosa – ha scritto Naomi Klein, in un articolo apparso su The Nation – è far sì che Israele diventi il bersaglio della stessa specie di movimento  che fermò l’apartheid in Sudafrica”. L’episodio della Freedom Flottilla, da questo punto di vista, è paradigmatico. Gestito in maniera erronea da Israele, non ha fatto altro che rafforzare il network mediatico di cui parliamo, senza che i pacifisti pro-palestina dei Paesi occidentali abbiano mosso una sola critica agli islamisti dell’IHH che erano partiti verso la Striscia con l’obiettivo del martirio.

Non contento dell’accaduto, lo European Campaign to end the siege of Gaza ha annunciato a stretto giro una nuova spedizione umanitaria verso la Striscia. Il convoglio avrebbe già raccolto 5.000 adesioni, comprese quelle di alcuni parlamentari italiani. Il sito della Ong è quanto di peggio possa nuocere alla ‘causa’ palestinese. Dimenticate la fierezza di un Arafat o le battaglie in nome dell’autodeterminazione: vedrete solo fotografie di bambini denutriti che reggono il moccolo di una candela che si sta spegnendo. La pietà, ci mancherebbe, è un sentimento cristiano. Il piagnisteo è invece no, è una delle moderne forme della palestinolatria, la tecnica che il network islamo-comunista utilizza per martellare le opinioni pubbliche occidentali, con la scusa che di Gaza non si parla mai abbastanza (quando invece non c’è altro luogo della Terra che goda di maggiore attenzione da un punto di vista massmediatico). Di Hamas, al contrario, e delle conseguenze generate dal fascismo islamico sul movimento di liberazione del popolo palestinese, interessa poco. Militanti di Hamas erano al varo della nave turca Marmara, e fra le sigle della European Campaign che si sono impegnate a portare nuovi aiuti a Gaza ci sono gli islamisti attivi in Gran Bretagna e nella penisola scandinava, alcuni di questi, a Oslo, finanziati apertamente dall’Iran, che nella capitale nordica costruisce grandi moschee.

Israele ha solo un modo per non ricadere nel brutto scivolone della Freedom Flottilla. Forse non sarà sufficiente a evitare nuovi incidenti ma è decisivo per sovvertire l’andamento della ‘guerra mediatica’ con Hamas: denunciare ed evidenziare tutti i collegamenti fra le Ong pacifiste e solidali con gli islamisti, mostrare da che parte stanno gli europei che danno vita ai convogli come la Flottilla. I palestinesi, soprattutto quelli di Gaza, farebbero bene a riflettere su quanto possa essere conveniente, o su quanto lo sia stato fino adesso, fare affidamento su forze che strumentalizzano la loro battaglia ormai secolare – il diritto di avere una terra in cui vivere – per soddisfare i propri rigurgiti anti-occidentali. Col rischio, ormai è quasi una certezza, che “l’Hamastan” venga abbandonato a se stesso.

Anche i palestinesi della West Bank non se la passano troppo bene – come denuncia un rapporto di “Save the Children” sulla povertà infantile nella Cisgiordania ancora sotto controllo militare israeliano. Ma c’è una differenza sostanziale con Gaza. Dopo l’Intifada dei kamikaze, vista la reazione israeliana, gli eredi di Arafat hanno cambiato registro, mettendo un freno alla violenza. C’è stato “un miglioramento delle situazione economica complessiva”, come ammette Salam Kanaan, responsabile di Save the Children in in West Bank. Un dato già ampiamente annunciato dal governo Netanyahu in quelle che viene sinteticamente definita “pace economica”. Le notizie circolate nei giorni scorsi su una ripresa dei ‘talk’ che porterebbe, grazie alla mediazione americana, a uno scambio di territori fra ANP e governo israeliano, mostra che l’unica strada da seguire per far tacere le armi è proprio quella dei "piccoli passi", nella ripresa economia, nella trattativa diplomatica, e via discorrendo.

Se si giungesse ad un risultato del genere sarebbe anche il frutto della determinazione israeliana, l’uso della forza dopo l’Intifada dei martiri, Muro compreso. Come ha lasciato intendere Natan Sharansky è questo il modello che Israele deve tener presente per risolvere la questione di Gaza. Forse è "politicamente scorretto" dirlo, ma qual è l’alternativa? Ecco perché una nuova spedizione della Flottilla rischia di complicare e peggiorare la situazione ancora di più di quanto non lo sia adesso. Ecco perché, forse, alla popolazione di Gaza non conviene ricevere il frutto – marcio – del network politico-mediatico che sostiene le "Flottilla". Nei giorni scorsi è morto ‘Abu Daoud’, nome di battaglia di Mohammad Oudeh, la mente dell’attacco terroristico alle Olimpiadi di Monaco, quando il cuore della sinistra occidentale batteva forte per le gesta del terrorismo palestinese. Si chiude un’epoca, nella speranza che quella destinata ad aprirsi non abbia soltanto le sembianze di Hamas e dei rottami ideologici che, in Europa, fanno ancora il suo gioco.