“Le Forze Armate italiane acquisiscono nuove capacità”

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“Le Forze Armate italiane acquisiscono nuove capacità”

“Le Forze Armate italiane acquisiscono nuove capacità”

18 Giugno 2007

Intervista
all’Ammiraglio Giampaolo Di Paola
di Emiliano Stornelli

In un Paese come l’Italia, dove la “cultura contro la Difesa” è talmente radicata che
la res militaria,
per riflesso ideologicamente condizionato, desta comunemente uno sdegno moralistico che trova
sfogo nella demonizzazione delle Forze Armate, e dove la dimensione della
Sicurezza, con la serietà delle sue problematiche, è così misconosciuta e
malintesa da essere considerata materia esclusiva di guerrafondai e
imperialisti, l’Occidentale ha deciso che fosse giunto il momento d’intraprendere un
viaggio di approfondimento nel mondo militare, come opera di contrasto di quella
certa scuola culturale e politica pacifinta e antimilitarista che ancora oggi
riesce a esercitare un’influenza decisiva sugli orientamenti governativi.
L’obiettivo è di procedere all’affermazione di un’autentica “cultura della
Difesa” nel nostro Paese.

Le Forze Armate italiane compiono oggi uno sforzo
organizzativo enorme per garantire l’efficienza, spesso al limite della sopravvivenza
causa l’endemica carenza di fondi, dei soldati che sono impegnati nelle aree
interessate da crisi che rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale
– i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq e il Libano -, in missioni di mantenimento
della pace, stabilizzazione e ricostruzione, sotto l’egida delle Nazioni Unite
e della Nato. Questo sforzo è troppo poco valorizzato dai mezzi di
comunicazione e troppo poco apprezzato dalla popolazione e da talune espressioni
della società civile come le organizzazioni non governative, che nelle aree di
crisi sovente disdegnano l’indispensabile ruolo dei militari nel garantire la cornice
di sicurezza e il supporto logistico necessari al compimento delle loro stesse attività
umanitarie.

Il nostro viaggio all’interno delle Forze Armate ha come
prima tappa il vertice dell’organizzazione militare italiana. Il Capo di Stato
maggiore della Difesa
, l’Ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha infatti concesso
un’intervista all’Occidentale, dove ci guida nella comprensione del contesto strategico-militare
a cui l’Italia appartiene e delle linee evolutive del nostro strumento militare.

%3Cp>La Nato è il
fondamento della difesa collettiva euroatlantica, mentre la Politica Europea di
Sicurezza e di Difesa (Pesd) prevede la creazione di una politica di difesa
comune tra gli Stati membri dell’Unione Europea. Quali sono i rapporti tra Nato
e Ue?

Per rispondere in materia esaustiva alla domanda è opportuno
prima precisare cos’è la Pesd. E’ stato il Consiglio Europeo di Colonia del
giugno 1999 a prefigurare la creazione di un sistema difensivo comune europeo,
stabilendo che “l’Ue deve avere una capacità di condurre azioni in modo
autonomo, potendo contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere
di farle intervenire e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere alle
crisi internazionali lasciando impregiudicate le azioni della NATO (…); lo
sviluppo di una capacità di gestione militare delle crisi deve essere
considerata un’attività nel contesto della PESC ed un elemento della graduale
definizione di una politica comune di difesa”.
La creazione progressiva di una politica di difesa comune,
vale a dire la Pesd, si definisce, pertanto, all’interno della Politica Estera
e di Sicurezza Comune (Pesc), attraverso cui i Paesi membri dell’Ue sono
chiamati a esprimere una posizione univoca a livello internazionale.
Le decisioni in merito alla Pesd sono prese all’unanimità
dal Consiglio Europeo con la clausola dell’“astensione costruttiva” ovvero la
possibilità di uno Stato membro di astenersi dal votare contro una decisione
accettando la decisione degli altri ma senza avere l’impegno di applicarla.
La Pesd è compatibile con la Nato e anzi s’integra ad essa
in armonia con quanto definito dagli accordi definiti come “Berlin plus”, che
permettono all’Ue di avere accesso alle capacità e agli assetti comuni
dell’Alleanza Atlantica quando questa non è impegnata nella sua interezza.
E’ evidente quindi che tra Nato ed Ue devono essere
sviluppati stretti rapporti per un efficace coordinamento in materia di
sicurezza e risoluzione delle crisi evitando duplicazioni di strutture
organizzative e l’attuazione di politiche che portino all’allentamento del
rapporto transatlantico.

In cosa consistono
gli accordi “Berlin plus”?

Tali accordi scaturiscono dall’insieme delle decisioni prese
nelle riunioni ministeriali della Nato di Berlino, nel giugno 1996, e di
Washington, nell’aprile 1999, che oggi garantiscono alla Pesd  l’accesso alla pianificazione della Nato, la pre-identificazione
degli assetti e delle capacità della Nato, l’identificazione di una serie di comandi
europei (incluso il Deputy Supreme Allied Command Europe, DSaceur) e l’adattamento
del sistema di pianificazione della difesa della Nato. “Berlin plus” ha già
dimostrato la sua efficacia in occasione delle due operazioni condotte nei
Balcani dove l’Ue si è sostituita alla Nato: l’operazione Concordia nell’ex
Repubblica jugoslava di Macedonia  FYROM
e l’Operazione Altea in Bosnia Herzegovina, che è ancora in corso.

Quali sono i punti di
forza e le debolezze del rapporto tra Nato e Ue?

Come in tutte le fasi iniziali sono sorte problematiche
superate con la disponibilità di entrambe le parti. Questi impegni, che
sicuramente saranno sempre più intensi nel futuro, mirano a una risoluzione
coordinata e univoca delle problematiche internazionali tramite l’impiego ottimale
delle risorse e degli strumenti in possesso della Nato e dell’Ue.

Se il punto di forza
della Nato, oggi come nella guerra fredda, è sempre stato la piena e perfetta
integrazione sul piano operativo e addestrativo dei Paesi membri, a che punto
si trova questa integrazione in ambito Pesd?

Questa domanda mi dà la possibilità di chiarire alcuni
equivoci che spesso, sia a livello internazionale che nazionale, vengono
sollevati in merito alle capacità operative ed addestrative delle Forze Armate.
Come abbiamo appena visto, la Pesd è una politica giovane, per cui molti sono
portati a pensare e credere che il suo sviluppo richieda gli stessi tempi che
sono stati necessari per lo sviluppo della Nato. Questa non è esattamente la giusta
valutazione da dare alla Pesd, ovvero dobbiamo considerare che la maggior parte
degli Stati membri dell’Ue sono le stesse nazioni che compongono l’Alleanza Atlantica
e come tali hanno già standard e procedure comuni, nonché un ampio ventaglio di
esercitazioni e operazioni svolte in comune che assicurano un ottimo
affiatamento. A ciò si deve aggiungere che anche gli altri Stati membri hanno
concordato di utilizzare gli standard della Nato e quindi possiamo affermare
che la Pesd è paragonabile a un bambino nato grande che ha bisogno soltanto di
esercitare tutte le conoscenze che ha in memoria.

Quali vantaggi
scaturiscono dal modello integrato della Nato?

Con una complessa struttura civile e militare, la Nato
espleta il suo compito fondante di sicurezza attraverso lo sviluppo di un
contesto politico transatlantico forte, basato sulla condivisione di principi
ed istituzioni democratiche, atto a risolvere in modo pacifico le contese in
ambito europeo (e non solo) e, nella sostanza, a rafforzare il diritto
internazionale.
Infatti, l’Alleanza Atlantica facilita, razionalizza e
coordina la gestione delle risorse e degli sforzi, delle singole Nazioni a lei
appartenenti, in settori di comune interesse, creando condizioni favorevoli per
la cooperazione politica, militare, economica e scientifica.
In sostanza, essa costituisce il foro principale di
consultazioni transatlantiche sulle questioni afferenti agli interessi vitali
ed ai rischi per la sicurezza dei suoi membri, esercitando una funzione
fortemente dissuasiva e se del caso difensiva contro ogni possibile
aggressione.
Ma la Nato non limita la propria azione alla sua membership:
essa promuove sicurezza e stabilità attraverso il dialogo e la cooperazione
(soprattutto in ambito politico, economico e, ovviamente, militare) anche con
molti Paesi partners, geograficamente collocati ben al di la dei confini del
Patto.

Quanto incide la
volontà politica sullo sviluppo della politica europea di sicurezza e difesa?

Come precedentemente affermato la Pesd non è una politica a
se stante e disgiunta da quel grande progetto che è l’Unione Europea, ma è
parte integrante della Pesc di cui è il braccio di sostegno nella definizione
delle azioni comuni. Per cui, la Pesd è lo strumento di supporto per la
politica unitaria qualora si ravveda la necessità di un intervento militare e
civile per la risoluzione di crisi di interesse europeo.

%3Cstrong>Come s’inquadra
l’impegno italiano nelle Nato e nella Pesd?
L’Italia è uno dei maggiori contributori di forze dell’Ue e della
Nato. Ovviamente tale contributo si concretizza in gran parte ricorrendo agli
stessi assetti, in particolare per quelli di maggiore valenza operativa. Ne
deriva una forte esigenza di coordinamento e complementarietà fra le due le
organizzazioni internazionali.

La realtà della
sicurezza planetaria dopo gli attentati dell’11 settembre ha reso
indispensabile l’acquisizione di abilità e conoscenze nuove e specifiche. La
formazione culturale e l’addestramento dei militari come si sono adattati alla
globalizzazione, alla guerra asimmetrica e alla minaccia terroristica connessa
al fondamentalismo islamico?

La predisposizione delle forze allo scopo di fronteggiare
adeguatamente i nuovi scenari, richiede un processo di addestramento sempre più
spinto e completo, che accresca le capacità dei reparti e delle singole
componenti di operare in contesti interforze e multinazionali e all’interno di
una filosofia operativa “net-centrica” ed “effect-based”.
In questo contesto, la fase di addestramento di base, detta “single service”, è
integrata da momenti addestrativi più complessi in chiave interforze e
multinazionale, in cui le diverse componenti dei pacchetti operativi d’impiego
debbono amalgamarsi per acquisire un’intrinseca capacità e dimestichezza ad
operare in maniera integrato. Questa fase precede il dispiegamento nei teatri
operativi e viene condotta con il preminente coinvolgimento del Comando
Operativo Interforze (COI).
Il passaggio al sistema professionale ha richiesto la rapida
adozione di moderni processi di gestione e valorizzazione del personale, sia
militare sia civile, in ogni fase del servizio, compreso il reinserimento nella
società civile del personale militare a termine. Particolare importanza,
inoltre, viene data alla formazione di una vera mentalità interforze e al
miglioramento delle qualità di leadership, rafforzando il senso di appartenenza
all’istituzione, la motivazione, la coesione e lo spirito di corpo.
Sul piano ordinativo, si sta proseguendo nel processo di
riorganizzazione già avviato, al fine di ottimizzare e razionalizzare, anche in
chiave interforze, le strutture territoriali e di supporto a vantaggio delle
componenti più operative, secondo un modello concettuale che privilegi la
semplificazione delle strutture, l’eliminazione delle duplicazioni e delle
ridondanze e la sinergia interforze.

Come s’inseriscono in
questa fase di rinnovamento l’avvio del modello professionale e l’ingresso
delle donne nelle Forze Armate?

L’ingresso delle donne nelle Forze Armate s’inserisce
coerentemente nell’evoluzione del sistema Difesa, in misura pienamente aderente
ai compiti e agli scenari operativi previsti per le Forze Armate (tra questi
l’incremento delle missioni a carattere internazionale), per assolvere ai quali
è essenziale uno strumento interamente professionale e pienamente integrato con
quelli dei Paesi europei e Nato che annoverano, da molto più tempo, personale
femminile nelle loro file.

Cosa s’intende per
cooperazione civile-militare negli scenari di crisi?

Colgo l’occasione per operare una distinzione di
fondamentale importanza nell’ambito dei rapporti civili-militari, quella tra
cooperazione e coordinamento, due concetti simili nella forma ma differenti nel
contenuto.
Nel corso di una missione, l’intervento militare si affianca
a quello di altre organizzazioni che intervengono in supporto alle popolazioni
che si intende assistere (Onu, Osce, Ong e così via). La cooperazione comprende
tutte quelle attività che il comandante militare di un’operazione svolge in
teatro per supportare le azioni delle altre organizzazioni e poter individuare
aree di possibile interesse comune, per ottimizzare gli sforzi compiuti, in
accordo con i compiti ricevuti.
Nella visione dell’Unione Europea e della Nato, invece, si
preferisce parlare di coordinamento. Le azioni svolte dalla Forza militare in
teatro sotto la guida di un comandante vengono coordinate dal vertice
decisionale politico-militare che sta a Bruxelles. Il coordinamento tra il
vertice decisionale e gli strumenti militari e civili schierati sul campo è imprescindibile
per ottimizzare le risorse e per svolgere l’operazione in maniera unitaria,
lineare ed efficace.

Con la fine della
guerra fredda e l’ingresso nell’era dell’informazione, la Nato ha adottato la cosiddetta Network
Centric Warfare (Ncw) come dottrina militare, sia per le
operazioni ad alta intensità di tipo combat che per quelle a supporto della
pace e di assistenza umanitaria. Di conseguenza, l’Italia, insieme al resto dei
Paesi membri della Nato, ha avviato una fase di trasformazione dello strumento
militare finalizzata all’acquisizione della nuova impostazione concettuale e
del modus operandi netcentrico. In cosa consiste esattamente il Ncw?

Le enormi innovazioni della tecnologia dell’informazione,
ovvero l’Information Technology, è senz’altro uno dei fattori che hanno
contribuito ai più recenti e profondi cambiamenti della vita contemporanea,
tanto da farla connotare come Information Age. Di conseguenza, anche il mondo
“militare” vive una fase di profonda trasformazione, al centro della quale si
colloca – anche e soprattutto in virtù delle esperienze nei teatri operativi,
sia passate che tuttora in corso, delle esercitazioni, delle simulazioni e, non
ultimo, delle esperienze di Paesi che hanno già intrapreso il cammino in questa
direzione, come gli Stati Uniti e il Regno Unito – il concetto Network Centric
Warfare (NCW), che rappresenta in sintesi la risposta con la quale il comparto
militare si è adeguato all’era dell’informazione.Il termine Ncw non si riferisce soltanto ad aspetti tecnologici,
ma identifica una combinazione di elementi dottrinari, organizzativi, tecnici e
procedurali che, efficacemente legati tra loro (“messi in rete”, ovvero
“networked” secondo la terminologia anglosassone), sono in grado di stabilire
una situazione di decisiva superiorità per la forza che ne dispone, la
cosiddetta Information Superiority. L’Information Superiority consente una
condizione di preminenza e prevalenza nel campo dell’informazione, attraverso
lo sviluppo di una Network Enabled Capability (Nec) tale da consentire lo
svolgimento delle operazioni senza che gli avversari siano in grado di
contrastarle efficacemente. Spesso i termini Nec e Ncw sono usati come
sinonimi, ma presentano in realtà delle differenze sostanziali, anche se fanno
entrambi riferimento alla stessa idea di fondo: lo sfruttamento
dell’Information Technology per la creazione di una rete in grado di operare
come moltiplicatore di forza. Infatti, il concetto Ncw, introdotto dagli Stati
Uniti, sottintende un approccio più radicale, fondato sull’acquisizione rapida
e diffusa di capacità net-centriche in grado di trasformare in tempi brevi
l’intero strumento militare. Il concetto Nec, di origine britannica, punta ad
acquisire le stesse capacità attraverso un’evoluzione più pragmatica e graduale,
che consiste nell’adeguare progressivamente parte delle piattaforme e dei
sistemi per renderli idonei ad operare in contesti net-centrici.

Qual è lo stato
dell’arte dei programmi di trasformazione avviati e allo studio per consolidare
ed estendere le capacità Ncw?

Per l’acquisizione della capacità Nec, all’inizio del 2004 la NATO ha avviato uno studio di
fattibilità sostenuto da 12 Paesi, tra i quali figura l’Italia. Oltre a
identificare e a raccomandare sia all’Alleanza Atlantica che ai singoli Paesi
l’adozione dei concetti Ncw e Nec, lo studio delinea una roadmap per sviluppare
e introdurre gli elementi concettuali e tecnici necessari per acquisire
capacità net-centriche via via più significative, indicando un obiettivo di
breve termine (e cioè l’introduzione di una capacità net-centrica “minima”
nell’ambito delle forze ad elevata prontezza operativa come la Nato Responce
Force, NRF, a partire dal 2008), uno di medio (l’estensione di tale capacità a
tutta la coalizione entro il 2012) e uno di più lungo termine (realizzazione di
una piena capacità net-centrica sul piano dell’interoperabilità,
dell’armonizzazione degli assetti e dell’architettura complessiva entro il
2020).

A che punta si trova
lo strumento militare italiano, rispetto agli obiettivi e ai tempi fissati
dalla Nato e al cambiamento degli strumenti militari degli altri Paesi membri?

Le Forze Armate italiane hanno già avviato un complesso
processo di trasformazione, in analogia a quanto sta avvenendo nei principali
Paesi alleati, nella considerazione che dapprima l’interoperabilità e la
successiva integrazione in campo multinazionale sia un requisito irrinunciabile
affinché il Paese continui a fornire un apporto significativo alle iniziative
della comunità internazionale per la stabilità e la sicurezza. Da questo
punto di vista, esiste la piena consapevolezza che non ha senso disporre di uno
strumento militare “scollegato” da quello dei più importanti Paesi che formano
le alleanze e le organizzazioni internazionali, in particolare la Nato e l’Unione
Europea, alle quali l’Italia appartiene.

L’approccio nazionale, così come quello degli altri Paesi
del continente europeo, persegue lo sviluppo del concetto meno radicale e più
sostenibile prefigurato nei requisiti di una Network Enabled Capability, cioè
della progressiva integrazione di sensori, decisori, piattaforme e sistemi
d’arma in una rete ad elevata capacità, in grado di permettere un’efficace e
tempestiva condivisione delle informazioni creata allo scopo di abbreviare il
più possibile la catena decisionale, cioè l’annullamento del divario esistente
nel ciclo che unisce fra loro sensori, decisori e attuatori.

Per le Forze Armate
italiane cosa comporta la standardizzazione di capacità Network Enabled?

Comporta anzitutto l’acquisizione e la maturazione da parte
del personale di una nuova mentalità: ognuno deve essere consapevole che, in un
ambiente net-centrico, è collegato e interagisce con altri attuatori e
decisori, quale parte di una rete in cui ciascun elemento influenza ed è al
tempo stesso influenzato dagli altri, per effetto di una condivisione sempre
più spinta delle informazioni, della consapevolezza e della responsabilità.
Nel sistema Nec, poi, l’enfasi si sposta dalle piattaforme
alla rete, vale a dire alla struttura che le interconnette e le mette in grado
di interoperare. Le piattaforme esistenti, se prive della capacità di operare
in rete, sono e saranno sempre meno significative e, per i sistemi oggi in fase
di sviluppo, il requisito di una piena compatibilità net-centrica è irrinunciabile.
C’è la necessità, infine, di indirizzare in via prioritaria
le risorse verso sistemi e piattaforme “network enabled”, privilegiando le
capacità rispetto alla quantità. Ogni assetto che le Forze Armate italiane
porteranno ad operare in teatro dovrà essere pienamente integrabile in un
contesto Nec sia a livello interforze che nei confronti degli assetti delle
alleanze e delle possibili coalizioni.

Quando il processo di
conseguimento di capacità Network Enabled da parte delle Forze Armate italiane
sarà completato?

I tempi di attuazione del disegno complessivo restano, per
quanto riguarda l’Italia, quelli tracciati dalla roadmap dell’Alleanza
Atlantica, che prevede l’acquisizione di una capacità minima Nec per le
operazioni con la Nrf entro il 2008, una crescita armonizzata per conseguire
significative capacità Nec di coalizione entro il 2012, e, a più lungo termine
(2016-2020), una piena capacità Nec.

Quali iniziative sono
state intraprese per conseguire gli obiettivi su indicati nei termini prestabiliti?

Per conseguire i propri obiettivi di breve, medio e lungo
termine la Difesa
italiana si è già mossa con diverse iniziative, sia in ambito nazionale che
internazionale. Per citarne solo le principali, è stato affidato all’industria
uno studio da completare entro l’anno corrente sugli assetti esistenti (i
cosiddetti “sistemi legacy”), al fine di valutare quali siano idonei ad
operare, mediante opportuni aggiornamenti, nel futuro ambiente net-centrico, e
quali sia invece preferibile dismettere gradualmente.
Sempre con l’industria, la Difesa sta creando un’adeguata
capacità di modelling e simulation, al fine di verificare preliminarmente –
attraverso una simulazione il più accurata possibile dei requisiti
tecnico-operativi, delle caratteristiche dei sistemi e dell’ambiente operativo
– che i sistemi in fase di studio e sviluppo siano conformi alle aspettative e
in grado di soddisfare appieno le esigenze operative delle Forze Armate.
La Difesa, inoltre, sta sviluppando nell’ambito di programmi
nazionali e internazionali ulteriori assetti necessari ad implementare le
successive fasi della trasformazione in senso net-centrico.

 Che
ruolo ricopre
l’elemento umano nella Network Centric Warfare?
In ogni caso, è assolutamente importante evidenziare che il
concetto di Ncw riguarda prima di tutto l’elemento umano e i processi delle
organizzazioni nelle quali l’uomo opera. Basti infatti pensare che la
disponibilità di tecnologie avanzate è certamente indispensabile per creare la
“rete” che abilita e rende possibile la creazione del “sistema di sistemi”,
tuttavia, l’“operare in rete” implica l’intervento coordinato e sinergico di
persone e di elementi organizzativi (comandi, reparti, unità), che, sotto la
guida di una nuova dottrina e avvalendosi delle più appropriate procedure,
riescono a relazionarsi in un modo nuovo, sfruttando le capacità della rete per
la raccolta, analisi e distribuzione delle informazioni, trasformandole in un
vantaggio decisivo nella condotta delle operazioni.