Le imprese non hanno più fiducia. E in fondo hanno ragione
31 Marzo 2008
Ci sono informazioni che non
giungono al grande pubblico, ma contribuiscono a sottolineare la situazione
economica italiana. Questo è il caso della fiducia che hanno le imprese
nostrane nel mercato. Un mercato che denota tutti i sintomi della malattia.
Secondo la consueta analisi periodica dell’Isae (Istituto
di Studi ed Analisi Economica) l’indice di fiducia delle imprese italiane è ai
minimi dall’agosto 2005. Il valore destagionalizzato di marzo si attesta a
quota 89, dopo il 91,3 di gennaio e l’89,6 registrato a febbraio. Lo stesso
indice, nella vicina Francia, è aumentato fino al 109, per marzo, benché il
presidente Nicolas Sarkozy abbia perso le ultime elezioni amministrative.
Nel
nostro paese si sono calcolati cali significativi fra i produttori di beni di
consumo finali, ma quelli maggiori di sono verificati nei beni intermedi.
Ancora, aumentano le difficoltà del nostro paese nelle esportazioni con gli
Usa, favoriti dal cambio euro/dollaro. A compensazione di ciò, diminuisce la
pressione concorrenziale nei confronti dell’Italia da parte della Cina e degli
altri paesi europei, tranne la Francia.
La perdita di fiducia delle imprese
nazionali può far ben capire, in modo empirico, come mai siano aumentati a
dismisura i prezzi al dettaglio per la quasi totalità dei prodotti. La
percezione della crisi economica e dell’aumento incontrollato del costo del
petrolio hanno avuto effetti devastanti sul mercato interno, già salassato da
un carico fiscale che è pari al 45,9%, uno dei maggiori in Europa. Il risultato
è quello stimato dall’Università Bocconi di Milano, che ha calcolato una
percezione dell’inflazione pari all’11%, invece che del 2,9% come dalle analisi
dell’Ue.
Nella nota rilasciata dall’Isae si legge che “il calo è dovuto
soprattutto alla contrazione del portafoglio ordini, concentrato sui mercati
interni; si stabilizzano invece le aspettative di produzione e scendono
lievemente le scorte di magazzino”. Quello che c’è da attendersi per i mesi a
venire sono altri cali nella produzione industriale, come quello avvenuto nello
scorso gennaio, pari al 6,5%.
In questo singolare spaccato
delle imprese nazionali, non si può non guardare al futuro. Un futuro che ha
una data precisa, quella del 15 aprile, il giorno dopo le elezioni, in cui sarà
definitivo il vincitore. Con la nomina di Emma Marcegaglia alla guida di
Confindustria, la tendenza sarà quella di un maggior sviluppo dell’indipendenza
dalle istituzioni politiche, dell’ammodernamento dei fattori fiscali,
dell’incentivazione all’imprenditoria. Il vero dilemma, tuttavia, sono le
mancanze di vantaggio competitivo dato dalla burocrazia italiana.
Si pensi che
per creare un’impresa in Italia sono necessari 30 giorni, in Francia 11, in
Regno Unito solamente 3 e solo restando in Europa, senza guardare nel resto del mondo in cui le nostre imprese devono confrontarsi.
L’Italia ha due variabili
che poche altre nazioni possono vantare, design e qualità costruttiva, che sono
ricercate e aumentano notevolmente la nostra competitività. Ma se tutto questo
va a cozzare contro un’amministrazione pubblica del tutto inefficiente e una
pressione fiscale capace di assimilare quasi la metà delle entrate dell’impresa
stessa, cosa si può pretendere? Il comparto industriale si trova frenato,
incapace di mostrare tutte le sue qualità competitive contro lo strapotere che
arriva dall’Oriente.
Non è attraverso i dazi di sapor arcaico che si compete
sui mercati globali, ma attraverso la libertà di scambio e di offerta, senza
l’intervento ossessivo degli Stati. Il primo scoglio da superare, troppo
spesso, lo si ha in casa propria, ma la tendenza è quella di guardare prima al
di fuori dei confini nazionali. Il mercato risponde agli stimoli che gli
vengono posti, secondo la logica dei costi e dei ricavi. Ma se non vi è la
struttura burocratica adeguata negli stati di origine delle imprese, la
competitività risulta compromessa, anche alla luce delle variabili di
vantaggio.
Il taglio del costo del lavoro per le imprese può rappresentare una
forte iniezione di fiducia in un settore che la necessita. A patto che poi si
decida di liberare dalle catene dell’imprenditorialità italiana, senza dazi e
capace di agire liberamente sui mercati.