Le incognite del mandato di arresto contro Bashir

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Le incognite del mandato di arresto contro Bashir

14 Marzo 2009

Il mandato di arresto nei confronti del Presidente del Sudan Omar Hassan Ahmad Al-Bashir emanato dalla Corte penale internazionale (Cpi) ha suscitato veementi reazioni che hanno riproposto il difficile tema della dialettica tra giustizia e pace. Vale dunque la pena fare qualche considerazione aggiuntiva rispetto a quanto già evidenziato all’epoca della richiesta del Procuratore, lo scorso 14 luglio 2008.

Sette mesi e 20 giorni
La prima considerazione è sui tempi della decisione: contrariamente a quanto da più parti pronosticato, i tre giudici della Camera preliminare del Cpi hanno avuto bisogno di ben sette mesi e venti giorni per giungere a una decisione sul cui contenuto non vi erano, in verità, grandi dubbi: era difficile, infatti, immaginare che i giudici potessero negare la richiesta di arresto presentata dal Procuratore Moreno Ocampo. Un periodo di tempo che appare tuttavia in contrasto con le finalità di un mandato di arresto: una misura urgente volta a impedire che la persona oggetto del provvedimento ostacoli o metta a repentaglio le indagini oppure continui a perpetrare i crimini di cui è accusato. Secondo un autorevole parere, meglio sarebbe stato se il Procuratore avesse richiesto alla Corte di emanare, in luogo dell’ordine di cattura, una citazione di comparizione (summon to appear).

È lecito invece chiedersi cosa abbiano fatto in questo lasso di tempo gli Stati che fanno parte della Cpi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il governo di Khartoum. Il Presidente Bashir, dal canto suo, si è molto attivato per rafforzare la sua posizione sia all’interno che all’esterno del paese, in particolar modo per creare un fronte comune in seno all’Unione Africana. Sul piano interno, a poche ore dalla decisione della Cpi, migliaia di persone si sono riversate in piazza a sostegno del Presidente. Ha destato soprattutto scalpore la decisione del Sudan di revocare l’autorizzazione a 13 agenzie umanitarie straniere, determinanti per la sopravvivenza di oltre un milione di persone. L’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu intende verificare se ciò costituisca un crimine di guerra.

Fu genocidio in Darfur?
Leggendo il mandato di arresto si rimane colpiti dal fatto che la Camera, a maggioranza, abbia rigettato l’accusa di genocidio nei confronti di Bashir, confermando invece le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. Si è già rilevato come non sia facile dimostrare l’esistenza di un genocidio in Darfur secondo il principio della ‘prova oltre ogni ragionevole dubbio’. Eppure, questa decisione della Camera non appare del tutto convincente. In questa fase, per il rilascio di un ordine di cattura, è sufficiente uno standard di prova meno rigoroso: il collegio deve solo accertare che vi sono ‘fondati motivi’ di ritenere che Bashir abbia commesso un certo crimine. Nella decisione, come evidenziato nell’opinione individuale del giudice Anita Usacka, la Camera appare piuttosto sovrapporre e forse confondere i due standard.

Si tratta di una questione essenzialmente tecnica, quantunque non secondaria: la Corte afferma che l’intento genocida del governo sudanese è solo una delle ragionevoli conclusioni possibili che emergono dall’esame della documentazione raccolta dal Procuratore. Ebbene, ciò non soddisfa certamente quanto richiesto dalla ‘prova oltre ogni ragionevole dubbio’. Ma non è forse sufficiente per concludere che esistono comunque motivi fondati, da dimostrare successivamente nel corso del procedimento, per sostenere che un crimine di genocidio possa essere stato commesso in Darfur?

Il problema dell’immunità dei Capi di Stato e di governo
L’altra grande questione è quella delle immunità di cui godrebbe Bashir in quanto Presidente in carica. Vero è che, secondo lo Statuto della Cpi, non potrà essere invocata alcuna pretesa di immunità derivante alla posizione di Capo di Stato o di Governo. Tuttavia tale disposizione convenzionale non riguarda il Sudan, poiché non ha ratificato lo Statuto di Roma. La Camera ha comunque affermato che Bashir è sottoposto alla sua giurisdizione, rilevando che – ed è questa, tra le quattro ragioni addotte, la più convincente – il Consiglio di Sicurezza, nel deferire con ris. 1593 (2005) alla Cpi la situazione in Darfur, ha accettato nella sua interezza il quadro giuridico delineato dallo Statuto, compreso il venir meno dell’immunità.

Quanto al Sudan, tale Stato ha un preciso obbligo di cooperare con la Cpi, espresso dalla medesima risoluzione adottata sulla base del Capitolo VII della Carta dell’Onu. Ad un esame più attento, più complessa appare la posizione degli altri Stati, perché è dibattuto se Bashir – in assenza di una espressa statuizione del Consiglio di Sicurezza – continui a godere nei loro confronti dell’immunità in base al diritto internazionale. Se così fosse, gli stessi Stati parti dello Statuto non avrebbero titolo ad arrestarlo, se egli si venisse a trovare nel loro territorio.

Posto che la Cpi non possiede una propria polizia giudiziaria, l’aspetto più assurdo dell’emanazione del mandato di cattura nei confronti di Bashir, è che dunque sarebbero le autorità competenti del Sudan a dover procedere all’arresto. Assurdo naturalmente perché Il Presidente gode attualmente di ampio sostegno interno. Vale la pena ricordare che tale potere non può competere alla missione di peace-keeping Unamid che opera in Darfur.

Il rischio di rafforzare Bashir
Le reazioni più dure sono state una volta ancora quelle dell’Unione Africana (UA), della Lega Araba e della Cina, la quale ha nuovamente portato all’attenzione del Consiglio di Sicurezza la richiesta di adottare una risoluzione, ai sensi dell’art. 16 dello Statuto della Cpi, volta a sospendere le indagini per un periodo di 12 mesi.

Il Consiglio della pace e della sicurezza dell’UA ha rilasciato un comunicato in cui esprime la propria preoccupazione per gli effetti dell’ordine di cattura sul processo di pace nella regione. Sottesa è la critica alla c.d. “giustizia selettiva” della Cpi, poiché le indagini del Procuratore hanno riguardato unicamente quattro paesi africani. Al contrario altri Paesi (soprattutto Francia e Stati Uniti) hanno sostenuto che la lotta all’impunità non contrasta con la ricerca di una pace duratura.

Non manca infatti chi sostiene che la decisione della Camera produrrà conseguenze benefiche. L’effetto di delegittimazione del mandato di arresto potrebbe provocare tensioni anche all’interno della principale forza di governo sudanese, il Partito del Congresso Nazionale. Ciò potrebbe favorire un cambiamento. Secondo altri, l’acuirsi delle tensioni interne metterebbe piuttosto a repentaglio la stessa fragile pace tra il nord e il sud del Paese, firmata nel 2005.

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