Le intercettazioni dalla P3 al Rubygate: se la logica per i pm è un optional

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Le intercettazioni dalla P3 al Rubygate: se la logica per i pm è un optional

08 Marzo 2011

A furia di rincorrere filmati e registrazioni audio, a furia di favoleggiare su fantomatiche foto-gallery a luci rosse come nel peggior guardonismo d’antan, gli instancabili narratori delle notti di Arcore hanno lasciato passare pressoché inosservata l’unica vera novità di questi giorni: la comparsa di virgolettati diretti di Silvio Berlusconi nelle intercettazioni telefoniche depositate in edicola, rigorosamente a rate, dagli inquirenti milanesi.

La frase, del tutto irrilevante nel suo contenuto, è scivolata come se nulla fosse fra le pieghe della solita lenzuolata di Repubblica. "Se c’è bisogno di operarti (…) ti mando dai miei chirurghi del San Raffaele (…) che sono molto bravi", avrebbe detto il premier per telefono, lo scorso 12 gennaio, a una Barbara Faggioli evidentemente alle prese con qualche problema di salute. La conversazione è stata registrata, trascritta, e puntualmente divulgata insieme a tante altre. Ma forse non è un caso che sia saltata fuori solo adesso, e che solo adesso la Procura inizi a utilizzare bobine e brogliacci con la viva voce del Cav., in apparente contraddizione con quanto il capo dei pm di Milano, Edmondo Bruti Liberati, aveva solennemente dichiarato alla stessa Repubblica il giorno della richiesta di giudizio immediato per il Ruby-gate: "Le intercettazioni che riguardano l’onorevole Berlusconi sono quattro o cinque e non sono state neanche trascritte. La loro rilevanza è praticamente nulla, tanto che non chiederemo l’autorizzazione parlamentare per il loro utilizzo".

Che le telefonate del premier non siano state trascritte è smentito dai fatti, visto che – come dicevamo – proprio ieri Rep. ne spiattellava una in pagina. Che la Procura non abbia mai chiesto al Parlamento l’autorizzazione a utilizzarle è invece vero. Il combinato disposto fra le due circostanze spiega bene la tempistica degli avvenimenti, autorizza a sospettare che sia in atto un sofisticato gioco di fumo e specchi e a noi soliti malpensanti lascia presagire che i fuochi d’artificio in quel di Milano siano soltanto all’inizio. Vediamo perché. La questione è complessa e a tratti tecnicistica, ma merita di essere approfondita. E occhio ai dettagli.

Mentre l’indagine a carico di Berlusconi per concussione e prostituzione minorile è chiusa ed è iniziato il count down per l’avvio del processo fissato al 6 aprile, l’inchiesta a carico di Emilio Fede, Nicole Minetti e Lele Mora per induzione e favoreggiamento della prostituzione è ancora aperta nonostante la sua conclusione fosse stata data per imminente già diverse settimane fa. Da qui le nuove pubblicazioni di atti, da qui la rincorsa a presunti audio, foto e video, da qui l’affiorare di intercettazioni del Cav. finora tenute rigorosamente top secret e addirittura negate. I due filoni d’inchiesta, infatti, oltre a prevedere differenti capi d’imputazione hanno infatti una sostanziale diversità: il nome degli indagati. L’onorevole Silvio Berlusconi da una parte, Fede-Mora-Minetti dall’altra. E questo, dal punto di vista delle intercettazioni dei parlamentari, cambia le carte in tavola.

L’articolo 68 della Costituzione stabilisce infatti che le conversazioni dei membri del Parlamento non possano essere intercettate se non previa autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma le telefonate si fanno sempre in due e c’è la possibilità che il parlamentare, parlando con una persona intercettata, finisca a sua volta nella rete degli ascolti. La legge Boato, attuativa della disposizione costituzionale, prevedeva originariamente che per poter utilizzare le intercettazioni indirette dei parlamentari la magistratura dovesse in ogni caso chiedere il permesso alle Camere, sia per usare l’intercettazione nei confronti del parlamentare stesso, sia per servirsene nei confronti di terze persone. Ma un successivo intervento della Consulta fece rientrare dalla finestra quel che la Costituzione aveva tenuto fuori dalla porta: la Corte, azzoppando di fatto la legge Boato, decise che i magistrati avrebbero dovuto bussare in Parlamento per usare le telefonate contro deputati e senatori, ma non avrebbero dovuto chiedere niente a nessuno per utilizzarle contro terzi, a condizione che il contatto fra la persona intercettata e il parlamentare fosse qualificato come "casuale".

Da quel momento aggirare l’art. 68 della Costituzione è stato piuttosto facile: a un pm che volesse prendere di mira un parlamentare bastava mettere sotto controllo un suo interlocutore, trascriverne le telefonate spacciando discrezionalmente per "casuali" quelle che coinvolgevano il politico, e utilizzarle nei confronti nei confronti dell’interlocutore stesso senza bisogno di autorizzazione alcuna con la certezza che sarebbero finite sui giornali. Grazie a un’interpretazione assai elastica del concetto di "casualità" ne sono derivati abusi di ogni tipo, in certi casi addirittura paradossali. Basti pensare, ad esempio, alla campagna messa in atto contro Denis Verdini e Marcello Dell’Utri per l’inchiesta sulla fantomatica "P3": la Procura di Roma sosteneva che i due parlamentari avessero avviato in pianta stabile un sodalizio segreto e illegale con altri personaggi, ma poi utilizzava disinvoltamente le loro intercettazioni indirette sulle utenze dei presunti "sodali" spacciandole per conversazioni casuali!

Col tempo, il malvezzo di intercettare surrettiziamente i parlamentari con l’escamotage della "casualità" si è diffuso al punto che la Corte Costituzionale ha dovuto fare parziale marcia indietro richiamando l’autorità giudiziaria ad attenersi più scrupolosamente al regime autorizzativo fissato dalla Carta a garanzia dei membri del Parlamento.

Le cronache di questi mesi – a cominciare dal controllo a tappeto sugli ospiti di Arcore attraverso l’acquisizione massiccia e l’incrocio dei loro tabulati telefonici – danno l’idea di come il recente monito della Consulta sia rimasto di fatto lettera morta. Ma oltre alla radiografia degli ingressi nella dimora privata del parlamentare Berlusconi, vi è una ragione in più che potrebbe collegare questa complessa querelle procedurale al Ruby-gate. Il sospetto, infatti, è che la smentita di Bruti Liberati sulla trascrizione e utilizzo delle telefonate del Cav. fosse circoscritta all’inchiesta che vede indagato il Cav. stesso: in quel caso, infatti, è pacifico che per utilizzare le sue intercettazioni la Procura di Milano avrebbe dovuto rivolgersi alla Giunta per le autorizzazioni della Camera così come ha fatto per la surreale ed elefantiaca richiesta di perquisizione dell’ufficio del ragionier Spinelli. La comparsa su Repubblica di una conversazione telefonica di Berlusconi, peraltro del tutto insignificante, e mai transitata da Montecitorio, autorizza a ipotizzare che i pm intendano invece utilizzare liberamente la intercettazioni indirette del premier nel fascicolo che vede indagati Fede, Mora e Minetti, spacciandole per "casuali" e in questo modo aggirando le garanzie costituzionali. Ma allora vale il discorso che valeva per il "paradosso P3": se le telefonate con il Cav. sono del tutto casuali, come si fa a perseguire un presunto sodalizio criminale con l’assunto che lo stesso Cav. "casualmente" in contatto con i sodali ne sarebbe stato il sistematico "utilizzatore finale"?