Le linee guida del Governo contro la disoccupazione vanno bene (per ora)

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Le linee guida del Governo contro la disoccupazione vanno bene (per ora)

05 Febbraio 2009

«Provvedere alle persone, ripartire dalle persone: un progetto solidale tra istituzioni e attori sociali» è il titolo fortemente significativo delle Linee guida per la tutela attiva della disoccupazione che il governo ha consegnato a Regioni e Parti sociali durante il confronto del 22 gennaio (riforma della contrattazione). Il documento individua una serie di azioni, «tempestive e mirate», finalizzate «all’occupabilità» durante l’emergenza economico-sociale della crisi, secondo un percorso – spiegano le stesse Linee guida – «non semplice nella sua capacità di raggiungere tutti coloro che saranno colpiti dalla crisi né scontato nell’efficacia delle azioni ipotizzate». Dunque un percorso difficile, anche negli effetti, ma non impossibile da praticare.

Particolarmente accattivante è il significato che, nelle Linee guida, assumono queste azioni. Vale a dire il significato di misure capaci di rispondere ai bisogni delle persone senza sacrificare le esigenze delle imprese. Una soluzione, dunque, per mantenere al lavoro quante più persone possibili in questo periodo di crisi, caratterizzato dalla riduzione della produzione nelle imprese, e quindi delle ore di lavoro, garantendo comunque un reddito ai lavoratori che si traduce nei consumi tanto ricercati per far ripartire la carovana del Pil.

Il rovescio della medaglia, stando sempre alle Linee guida, è la presenza di alcune criticità: l’alto numero di lavoratori che non sono ancora destinatari di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, mobilità, indennità disoccupazione, ecc.) tra cui i co.co.pro. con un solo committente; il fenomeno dell’inurbamento – lo spostamento dei lavoratori per andare a vivere in città – che inevitabilmente accentua le difficoltà economiche durante la disoccupazione; la bassa professionalità soprattutto di giovani, donne ed anziani.

La proposta del governo – questo difficile ma non impossibile percorso per l’occupabilità – si snoda su 7 punti e potrebbe condurre (condizionale d’obbligo: si tratta di una proposta) a significativi cambiamenti dell’attuale sistema degli ammortizzatori sociali.

Dal punto di vista amministrativo, burocratico, si potrebbe registrare uno spostamento dell’attività decisionale degli interventi dallo Stato verso le Regioni (oggi gli accordi per l’erogazione della cig, per esempio, vengono sottoscritti presso il ministero del lavoro). Agli enti territoriali, infatti, viene chiesto di assumere le «funzioni di valutazione e negoziazione» delle richieste di intervento a favore dei lavoratori in esubero.

Dal punto di vista delle imprese si potrebbe registrare una modifica delle procedure di gestione del personale in esubero, con maggiore ricorso ai «contratti di solidarietà» – che consentono di evitare i licenziamenti riducendo a tutti i lavoratori l’orario di lavoro senza modificare i salari che vengono integrati dalla cig –; con minori autorizzazioni alla mobilità (anticamera dei licenziamenti); e con qualche forma d’incentivazione in più all’utilizzo dei tirocini formativi quale strumento di primo impiego per i lavoratori disoccupati.

Dal punto di vista dei lavoratori, infine, si potrebbero registrare le modifiche più rilevanti. Prima di tutto ci potrebbe essere l’ampliamento della platea dei soggetti destinatari di misure a sostegno del reddito durante la disoccupazione. Una novità, a dire il vero, che ha già trovato ampia effettività con le misure di potenziamento degli ammortizzatori sociali introdotte dal dl anticrisi (il n. 185/2008 convertito dalla legge n. 2/2009). Oltre questo, la fruizione degli ammortizzatori sociali dovrebbe perdere l’automatismo che oggi la caratterizza – è erogata in forma una tantum per predeterminati periodi di tempo – per essere invece vincolata, per quanto riguarda misura e durata, alle ore di lavoro prestate dal lavoratore prima di perdere il posto di lavoro e, comunque, secondo importi progressivamente decrescenti, al fine di stimolare comportamenti attivi da parte dei beneficiari (la ricerca di una nuova occupazione), fino alla revoca della prestazione in godimento nelle ipotesi di rifiuto di un’offerta di lavoro o di un percorso di formazione.

«Provvedere alle persone, ripartire dalle persone»: la proposta del governo, in definitiva, contiene interessanti misure d’intervento per affrontare la crisi alcune delle quali, come detto, già diventate norme di legge. Misure che chiedono, anche questo è vero, un’intesa solidale e di collaborazione tra istituzioni e società civile.

Va osservato, tuttavia, che si tratta di misure che si fermano al «provvedere alle persone» – senza dubbio la principale questione che deve oggi preoccupare chi ha assunto il compito di governare le sorti del Paese. Resta (ancora) in sospeso, invece, il «ripartire dalle persone»: un concetto forte che prelude ad altro. Al superamento, per esempio, delle divergenze che ancora impediscono – crisi o non crisi; con o senza le nuove misure – una piena uguaglianza di opportunità e trattamento, sul mercato e sulle tutele, tra lavoratori – appunto persone – delle diverse categorie di appartenenza. La preoccupazione è che la crisi, con il suo carico di paure, non possa finire per intorpidire la voglia e la forza di ammodernamento in questa direzione, di cui il Paese e società hanno veramente bisogno. Le misure «tempestive e mirate» – di indiscutibile necessità – non devono perciò fare accantonare i progetti di riforma, quale tra gli altri quello del Welfare partito con il Libro Verde sul futuro del modello sociale un anno fa (il 25 luglio).

Se davvero si vuole raggiungere il «primato della persona, di ciascuna persona, di tutte le persone», come auspicato nelle recenti Linee guida, occorre prima di tutto stabilire (o ri-stabilire) le regole di uguaglianza sociale, che fungono peraltro da iniettori di fiducia e di speranza. Dall’operazione non deve restarne escluso nessuno perché sia una sfida non «solamente economica ma, prima di tutto, progettuale e culturale», diretta a «riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali a partire dalla famiglia».

Sul lavoro, ed anche sulla previdenza e sull’assistenza (pensioni e ammortizzatori sociali insomma), significa smontare le tre prerogative che caratterizzano oggi il mercato dell’occupazione. La prima: il «privilegio di appartenenza», ossia la fortuna di avere un impiego nel settore pubblico e non in quello privato. Crisi o non crisi ma il dipendente pubblico che rischi corre di perdere il posto di lavoro?

La seconda: i «diversi pesi dei contratti di lavoro», ossia la sproporzione nei diritti e nelle tutele ai lavoratori che esiste tra lavoro subordinato (dipendente), parasubordinato (co.co.pro) e autonomo.

La terza, infine, «l’apartheid dei lavoratori». Tipica del lavoro dipendente è quella sorta di rendita di posizione di cui gode chi sta dentro il mondo del lavoro (chi è assunto) rispetto e a sfavore di chi, invece, in quel mondo vorrebbe tanto entrarci. Una barriera invisibile e invalicabile che protegge chi è dentro (occupati) e penalizza chi è fuori (inoccupati e disoccupati).