Le “mamme-amiche” non fanno bene alla relazione fra genitori e figli

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Le “mamme-amiche” non fanno bene alla relazione fra genitori e figli

20 Giugno 2010

La crisi educativa fa parlare di sé. E’ di qualche giorno fa la notizia della mamma che chiama i carabinieri per togliere il proprio figlio dai videogiochi. Rintanato in casa si rifiutava di andare a scuola, finché la mamma esasperata e impotente è stata costretta a chiamare i carabinieri, forse anche impaurita dalle possibili reazioni violente del ragazzo. Il figlio era collegato sempre a Internet occupato in giochi di guerra si rifiutava di fare qualunque altra cosa. Una specie di hikikomori, ossia quei ragazzi che in Giappone rifiutano il contatto con il mondo chiudendosi in casa, anzi nella loro stanza, dove non entrano neanche i genitori. Questo fenomeno si sta diffondendo anche in Europa.

Chiamare i carabinieri mostra l’impotenza della mamma che, sopraffatta dal figlio, molla e delega ad altri, come quando si chiede alla scuola di agire al posto dei genitori. Peccato che quel posto lo possono occupare solo loro per una gran parte, ma soprattutto per quella parte essenziale alla crescita dei propri figli. E’ nel rapporto con i genitori che i ragazzi sperimentano la significatività della relazione. In essa passano tutti quei contenuti affettivi emozionali e di apprendimento che insieme all’indole del ragazzo e al contesto che lo circonda lo aiuteranno a strutturarsi come individuo. Se il genitore abbandona il campo che ne sarà di quel figlio? Come si è arrivati ad abbandonare il campo e a sperare che altri possano occuparlo con più competenza e più diritto? Pensare ad una mamma e un bambino che crescono insieme nella loro significativa e pregnante relazione rimanda ad un’immagine di gioia.

Vedere un padre che affianca un figlio aiutandolo a conoscere le regole del mondo fa sentire la gioia che dovrebbe impossessarsi dell’adulto nell’educare. Forse proprio questa si è persa, la gioia che si sperimenta spesso in una passione. Educare è una passione. Provare felicità nel vedere la crescita dei propri figli è la gratificazione più grande che il genitore dovrebbe sperimentare. Allora non si può che provare compassione per una madre che sembrerebbe aver perso, speriamo momentaneamente la possibilità di incontrare suo figlio.

Troppo spesso oggi i genitori attenti e quasi ossessivi nell’età delle elementari tendono a sparire dalla scena quando gli stessi sono preadolescenti. E’ proprio in questo momento che i genitori dovrebbero fare quello sforzo trasformativo e crescere insieme ai figli in una relazione che muta, che si trasforma. Non più quell’ accudimento e quell’attenzione che passano attraverso la vicinanza, la fisicità, la simbiosi. Inizia il periodo in cui i ragazzi vogliono essere aiutati a confrontarsi nelle idee, con il mondo, vogliono e devono sentirsi aiutati ad osare le proprie idee.

I genitori in questa fase dopo un breve periodo di smarrimento e disorientamento si trovano a vivere un ruolo diverso ma non per questo meno significativo e importante. In questa ridefinizione di se stessi parallela a quella del figlio devono rimanere lucidi e governare il processo avendo presente l’importante ruolo di responsabilità che ricoprono. Se si considera la preadolescenza come periodo di continua conflittualità con i propri genitori, viene da sé che in una famiglia che chiamiamo “affettiva” per  lo stile relazionale che oggi la distingue, sia ancora più complessa la gestione del rapporto con i figli che crescono. 

Il tipo di famiglia di oggi ha preso giustamente le distanze dalla vecchia famiglia autoritaria e priva di dialogo ma rischia di cadere nel permissivismo sciatto e non nell’autorevolezza. Il compito diviene più difficile. Dobbiamo con fermezza distinguere i ruoli e non cadere in una confusa amicalità che toglie al figlio, non dà. Sarà cura del genitore conservare la propria autorevolezza.

A fronte del conflitto familiare i genitori devono evitare i due estremi:  da un lato disfattismo e rinuncia e dall’altro rigidità e obblighi formali. Con gli adolescenti attuali la soluzione del conflitto passa attraverso il compromesso, la contrattazione, la mediazione. Una relazione che tiene dunque conto dell’autorità dei genitori ma anche delle competenze sociali dei figli che crescono. Questo avviene nel tempo. Dalla nascita genitori e figli acquisiscono una reciprocità di affetto, accettazione, comprensione e stima. Spesso in queste storie qualcosa si interrompe. I ragazzi perdono il desiderio del rapporto e del dialogo e preferiscono sottrarsi al mondo che vivono come complesso estraneo e in alcuni casi minaccioso.

Per questi ragazzi bisogna mettere in conto uno sforzo educativo maggiore poiché vanno aiutati a ritrovare un senso, un piacere nelle relazioni genitoriali e non. Bisogna riportarli alla vita facendogli intravedere non solo i contenuti quotidiani del vivere che potrebbero più o meno interessarli, ma riportarli tra noi attraverso l’amore mancato. L’amore è anche limite e regola che spesso il genitore non riesce e non vuole dare. Mettere un limite vuol dire darlo anche al proprio desiderio e vivere la sofferenza della frustrazione. Sottrarre al bambino per amore e vedere il suo dolore, sopportare la sua frustrazione di fronte al desiderio negato, fanno parte del difficile compito dell’educare.

Allora torniamo ad ascoltarli con rispetto facendogli sentire amore e interesse autentico: per loro, per i loro contenuti, per le loro idee. Soprattutto aiutiamoli a vedere un futuro, che ci sarà, che varrà la pena di costruire e di vivere pensando che la felicità può stare proprio nel tener viva questa speranza.