Le missioni internazionali e la politica estera italiana

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Le missioni internazionali e la politica estera italiana

27 Settembre 2012

Il 25 scorso si è svolto alla Camera dei Deputati un interessante Convegno organizzato congiuntamente dallo IAI e dall’ISPI sul ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali. Lo stesso titolo del convegno dimostra quanto dibattito dovrebbe essere dedicato a questo settore. Il termine “ruolo” non corrisponde alla realtà delle decisioni politiche per un intervento militare.  Avrei preferito il titolo “La partecipazione alle missioni internazionali e gli interessi nazionali italiani”, oppure quello più “politicamente corretto” “Le missioni internazionali e la politica estera italiana”.

Infatti, quando si menzionano gli “interessi nazionali” c’è ancora in Italia un certo imbarazzo. Meglio parlare di “umanitarismo”, di “operazioni di pace”, di “responsabilità internazionale” o di “solidarietà” verso la NATO, l’UE o l’ONU, istituzioni internazionali in cui ci conviene far parte attiva, per poterle utilizzare come moltiplicatori e amplificatori, anche geografici, di potenza; quindi, per meglio conseguire i nostri interessi. Questi ultimi non sono solo materiali – economici e strategici – ma anche di prestigio e di presenza. Che poi, per conseguire consenso interno e internazionale, si parli di grandi principi e di “massimi sistemi” ha sempre fatto parte del “gioco”.

Basti pensare alla “Cristianizzazione degli Indi”, o al “Fardello dell’uomo bianco”, o all’attuale “Responsabilità di proteggere”(R2P). Quest’ultima, si traduce nel trasformare le vittime in vincitori e, quasi sempre, in carnefici dei vinti. Non esistono interventi “innocenti”. Forse, l’unico avvenuto nella storia è stata la lotta alla schiavitù. In modo diretto o indiretto compaiono sempre gli interessi. Sono essi – beninteso valutati nel loro contesto internazionale e interno – che determinano la valutazione dei benefici, costi e rischi di un intervento rispetto a quelli del non-intervento. Definiscono anche come intervenire. Lo si deve fare in tempi compatibili con la rapidità di evoluzione degli eventi.

Tale decisione rende necessario il rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, con disposizioni quali il War Powers Resolution Act americano e la creazione di un Consiglio di Sicurezza Nazionale. E il controllo parlamentare? Può essere attuato solo se esiste, oltre che l’interesse, anche un adeguato livello di cultura strategica. La situazione di carenza è nota. La smilitarizzazione culturale della classe politica è facilmente rilevabile dal tasso di presenza nelle Commissioni Difesa ed Esteri e dal livello, spesso risibile, dei dibattiti che vi vengono svolti. Il miglioramento degli Uffici Studi sul modello del Congressional Research Service, potrebbe migliorare la situazione.

Nel corso del Convegno, tutti i partecipanti hanno posto in rilievo la funzione di supplenza che le Forze Armate hanno svolto nei riguardi degli altri strumenti d’influenza internazionale dell’Italia. Certamente è vero. C’è però da chiedersi se questo potrà bastare in futuro. Il mondo sta diventando molto più complesso. Lo spostamento del suo baricentro dall’Atlantico e Medio Oriente al sistema Asia-Pacifico e l’insuccesso in Afghanistan, renderanno meno improbabili “missioni di pace” consistenti come quelle degli ultimi vent’anni. Ciò pone una sfida alla pianificazione militare. Occorre attribuire priorità alla bassa intensità operativa e alla lunga durata, oppure alle operazioni relativamente brevi e ad alta intensità operativa e tecnologica?

Occorre restringere il raggio geografico della sfera degli interessi italiani, oppure mantenerlo malgrado la riduzione delle risorse? Per inciso, il problema riguarda l’intera politica estera dell’Italia e il futuro delle Forze Armate. Le si deve armare per fare che cosa? Per una politica più nazionale “di vicinato”, da media potenza regionale, oppure per una atlantica (parlare di una europea nelle attuali condizioni dell’UE è una presa in giro!), in cui la NATO, anche se non lo dichiara esplicitamente, dovrà rimanere globale non tanto per contare, quanto per sopravvivere?

E’ stato poi dato atto, da parte di tutti gli intervenuti, della capacità, impegno e spirito di sacrificio di cui hanno dato e danno prova i nostri contingenti all’estero. E’ stato anche lamentato il relativo disinteresse dell’opinione pubblica. Però, alquanto paradossalmente, è stato sostenuto che gli interventi all’estero hanno aumentato il grado di consenso degli italiani nel confronto delle Forze Armate. Alquanto incerti sono i dati oggettivi alla base di tale valutazione. Certamente, continua ad esservi una scarsa consapevolezza di cosa significhi l’impiego delle Forze Armate e perché per la pace debbano impiegare le armi. Si risente delle proposte, diffuse ancora qualche decennio fa, di disarmo della polizia. Alquanto scoordinati sono i dibattiti riguardanti interrogativi come “ne vale la pena?”, “quali sono i costi, i rischi ed i benefici che ne trae l’Italia?”.

L’adagio, spesso utilizzato, “siamo lì perché ce l’hanno chiesto i nostri alleati”, è sempre meno convincente. Molto più concretamente c’è da chiederci che cosa capiterà dopo le elezioni del prossimo aprile. E’ probabile una polarizzazione dell’arco politico sulle estreme.  Non sarà più possibile – o, quantomeno diverrà più difficile – un consenso trasversale o – come è elegante dire – bipartisan, pressoché normale in tutti gli interventi del passato (per inciso, lo fu anche quella sullo schieramento degli euromissili a Comiso, quando il PCI annacquò le proteste). La riduzione della sovranità economico-monetaria peserà sui parlamentari. Non potendo bisticciare sull’euro, aumenteranno le polemiche sulla politica estera e sulle missioni all’estero. E’ probabile che ne vedremo di tutti i colori. Lo dimostra anche il fatto che il termine “nazionale” è giudicato troppo “di destra” (pochi sono consapevoli che il concetto stesso di nazione è molto più “di sinistra”).

La cultura politica italiana si è “smilitarizzata”. Ci siamo abituati a contare su “mamma America”. Risentiamo, tuttora, del fatto che negli anni più caldi per la nostra sicurezza (fino alla rivolta ungherese del 1956 o all’invasione della Cecoslovacchia del 1968), le Forze Armate erano di leva. La loro composizione rifletteva le divisioni politiche del Paese. Si temeva (a parer mio erroneamente, basti pensare all’episodio dei Magnacucchi) che un esercito, composto per il 35-40% di comunisti, fosse incompatibile con la partecipazione a un’alleanza anticomunista. Per mantenerne la coesione, lo si isolò anche culturalmente dalla società (furono addirittura soppressi gli insegnamenti di storia patria nelle Accademie militari!). Degli steccati di tale periodo rimangono penose tracce nei cartelli gialli con la scritta “Vigilanza Armata”, posti sui muri di cinta delle caserme, come se fossero quelle di un esercito di occupazione. Tale carenza, si riflette anche nella chiusura corporativa delle istituzioni. Beninteso, si è attenuata. Nel 1958, gli Jupiter furono accettati a Gioia del Colle senza neppure informare il Parlamento a cose fatte!

Un altro mito – prodotto dall’incultura militare e dalla manipolazione propagandistica – è quello del “buon soldato di pace”, molto più amato dall’opinione pubblica del soldato della guerra fredda, peraltro anch’esso soldato della Repubblica. Come dimostrano studi effettuati trenta anni fa, si confonde spesso – volutamente o no, ha scarsa importanza – l’opinione degli Italiani con quella delle classi medie e alte, che massicciamente, in un modo o nell’altro, eludevano la prestazione del servizio militare, come oggi evadono le tasse. All’inizio degli anni Novanta, meno di un quinto dei parlamentari italiani avevano assolto l’obbligo della leva, rispetto ai quattro quinti dei parlamentari francesi o tedeschi. Non ritengo che la mia ottimistica opinione sui rapporti fra italiani e Forze Armate sia solo influenzata dall’essere stato un soldato della guerra fredda, né dall’essere alpino. Ho visto la gente inginocchiarsi al passaggio della bandiera dell’8° reggimento e quanto gli alpini hanno fatto in Alto Adige, durante un periodo alquanto difficile della nostra storia. Basti anche pensare all’intervento in Libano nel 1982-84, o a quelli in Somalia e Mozambico nel 1993, o all’operazione Alba nel 1997, in cui abbiamo impiegato soldati di leva.

Che l’Esercito dovesse subire e abbia conosciuto radicali trasformazioni è fuori dubbio. La professionalizzazione era necessaria, anche perché la borghesia non prestava più il servizio militare. Esso era poi troppo breve per disporre di reparti sufficientemente addestrati e coesi. Ma sul carattere militare degli italiani le cose sono rimaste come le aveva descritte Enghels, l’amico di Marx, insigne storico militare e studioso degli eserciti pre-unitari italiani. Non credo che, da parte mia, si tratti solo di nostalgia per la giovinezza passata, che rende sempre più roseo il “buon tempo antico”. I soldati della Repubblica facevano quanto veniva loro ordinato di fare. Le Forze Armate lo fanno anche oggi, con dignità e con onore, come ha ricordato con orgoglio il Ministro della Difesa, Ammiraglio Di Paola, riaffermando l’importanza della militarità. Ha ridicolizzato con efficaci parole chi vorrebbe smilitarizzarle, disarmarle, trasformare i militari in samaritani e lo Stato Maggiore in una succursale della Croce Rossa Internazionale. Ho ascoltato le sue parole con soddisfazione. Sono persuaso che siano condivise dalla grande maggioranza degli italiani. Non bisogna lasciarsi impressionare da minoranze vociferanti. Si dà loro molta più importanza di quanto meritino. Cento persone urlanti fanno più rumore di diecimila che restano silenziose.

Nel corso del convegno, è stata sottolineata l’indispensabilità della NATO. Non solo perché essa dispone di una capacità di comando strategico ed operativo sperimentata e non riproducibile da altre organizzazioni. Ma anche perché garantisce la presenza in Europa degli USA. Washington rimane il vero integratore dell’Europa. Un’Europa strategica resta una semplice fantasia. Per farla, occorre costituire prima gli Stati Uniti d’Europa. Ma nelle attuali condizioni, chi può pensare che si tratti di un progetto realistico? Per l’Italia, la NATO è ancora più importante. E’ la più piccola delle grandi potenze europee e la più grande delle piccole. La presenza di una grande potenza come gli USA, accresce automaticamente il nostro rango. Saremmo esclusi dai “direttori” europei, che respingiamo a chiacchiere, poiché abbiamo difficoltà a farne parte. Solo gli USA collegano il Mediterraneo con l’Europa centro-orientale. Inoltre, nei confronti di Washington, godiamo di un residuo di rendita di posizione geostrategica, che tanto abbiamo sfruttato nella guerra fredda.

Nel convegno è stato espresso sotto diversi punti di vista, un concetto alquanto nuovo, almeno per me: l’essenzialità del fast power. Della sua importanza politico-strategica si è già parlato. Ma esso riguarda anche il settore delle armi e dei sistemi. Particolarmente interessanti, mi sono sembrate in proposito le considerazioni fatte dall’ing. Orsi su come l’Italia lo abbia efficacemente realizzato con la partnership “operativa-industriale”. Essa ha consentito il rapido adeguamento dei mezzi alle esigenze sempre più imprevedibili delle attuali operazioni anti-insurrezionali o, se vogliamo “di pace” (con buona pace del povero Aristotile che aveva dimostrato che nessuno fa mai la guerra per la guerra, ma per la pace che segue la guerra). Gli insorti dispongono di capacità di adattare tecniche e tattiche alle condizioni del momento, molto più rapide di quelle delle forze regolari. Queste ultime devono perciò aumentare la rapidità di adeguamento. L’Italia ha saputo farlo. Per tale motivo, come il Presidente/AD di Finmeccanica ha affermato con orgoglio, il gruppo è quello che ha il maggior numero di mezzi in Afghanistan. Molti hanno acquistato i prodotti dell’industria degli armamenti italiani. Altri cercano di adottare le nostre procedure. Questo successo è derivato dal dialogo diretto fra operativi e tecnici. Esso ha consentito a Finmeccanica non solo di soddisfare le esigenze delle nostre forze sul campo, ma anche di “battere sul tempo” la concorrenza, con consistenti vantaggi per l’economia nazionale. E’ un aspetto che non va trascurato. Corrisponde alle caratteristiche di fondo della cultura industriale italiana di saper escogitare soluzioni innovative per soddisfare le esigenze del mercato, via via che esse si presentano…