Le mosse di Prodi per durare
22 Gennaio 2008
Ha parafrasato Ponzio Pilato uscendo dalla Camera dei deputati (“ciò che ho detto, ho detto”, ha bofonchiato), ma di affondare gli artigli nell’acqua e lavarsi le mani di una coalizione che in larga parte desidera liberarsi di lui, Romano Prodi non sembra avere alcuna intenzione.
Sarà perché venti mesi di resistenza contro ogni legge gravitazionale devono averlo convinto che non vi è evidenza che, con una buona dose di faccia di bronzo e una dissimulata ma poderosa capacità di conservazione del potere, non possa essere contraddetta.
Sarà forse perché dopo essere riuscito a far votare a Lamberto Dini la stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione e aver convinto i pacifisti dell’anti-G8 ad accogliere De Gennaro come un salvatore della patria, nessun ostacolo appare più insormontabile. Neanche il voto di fiducia in un Senato in cui il problema, fin dall’inizio della legislatura, è sempre stato aritmetico prim’ancora che politico, e figuriamoci adesso con la fuoriuscita delle “truppe mastellate” e la prevedibile consumazione dell’addio a Romano solennemente annunciato da Domenico Fisichella durante il voto sulla Finanziaria.
Sta di fatto che, leggendo in controluce lo scatto d’orgoglio che il presidente del Consiglio ha offerto alla platea di Montecitorio, le alternative che Prodi sembra aver posto davanti a sé sono in sostanza due: sbancare il botteghino delle scommesse incassando per il rotto della cuffia la fiducia del Parlamento (in questo senso la notizia, subito smentita, che il senatore Clemente Mastella non avrebbe partecipato al voto di Palazzo Madama ha per qualche minuto alimentato il giallo); oppure presentarsi sfiduciato e dimissionario davanti al Capo dello Stato finora silente, ma solo dopo aver costretto l’Unione al completo, ad eccezione dell’Udeur, a votare per lui, per il suo programma, per il suo governo, in sostanza per la sua leadership, piazzando un macigno sulla strada di un “governo di salute pubblica”, spingendo di fatto per il voto anticipato in primavera, e gettando le basi per riproporre la sua candidatura alla guida del centrosinistra. Sempre che gli riesca di far rimangiare al Pd, prima dell’approvazione dello statuto del partito, la norma proposta dal veltroniano Salvatore Vassallo che limita al segretario del partito la possibilità di esprimere una candidatura alla guida del governo (salvo che il Professore non voglia sfidare Veltroni in una competizione primaria dall’esito prevedibilmente rovinoso).
Immaginando che il “fattore C” di Romano Prodi sia definitivamente esaurito – ma, come la tragicomica cronistoria degli ultimi due anni ci ha insegnato, mai dare niente per scontato – il ventaglio delle opzioni plausibili prevede la possibilità del voto nella prossima primavera, con conseguente rinvio del referendum, oppure un governo istituzionale, al quale l’Udc ha già dichiarato che sarebbe disponibile a partecipare.
Alleanza nazionale, dopo le alzate d’ingegno degli ultimi mesi, s’è affrettata a dichiarare per bocca del leader Gianfranco Fini che lo sbocco auspicabile della (eventuale) crisi sarebbe un immediato ritorno alle urne con il centrodestra unito e Silvio Berlusconi indiscutibilmente candidato premier.
Il Cavaliere, invece, può permettersi il lusso di scegliere il percorso da intraprendere, compatibilmente con le intenzioni del Quirinale: riprendere in mano le redini della coalizione di centrodestra, cogliere al volo la repentina mansuetudine di Fini, sistemare la partita con l’Udc (con cui, a detta di Berlusconi, Mastella avrebbe intrapreso un processo di riavvicinamento) e puntare dritto alle elezioni e dunque a Palazzo Chigi (mettendo preventivamente in conto, però, che l’appuntamento con il referendum elettorale sarebbe soltanto rinviato al prossimo anno). Oppure investire strategicamente su una prospettiva di medio periodo, portando avanti il dialogo sulle riforme con un Walter Veltroni finalmente libero dal “fardello” del governo Prodi, e togliendo così di mezzo la spada di Damocle referendaria.
Una strada, quest’ultima, avvincente ma impervia, dal momento che difficilmente gli alleati sarebbero della partita. E che il segretario del Pd, con le vicende legate alla bozza Bianco e al tavolo elettorale, e a causa delle forti resistenze interne al suo partito, non sembra essersi rivelato in grado di fornire agli interlocutori sufficienti garanzie.