Le negoziazioni sul nucleare tra Usa e Iran sono solo un inutile déjà vu
14 Aprile 2012
di redazione
I negoziatori americani e iraniani si incontreranno questo fine settimana a Istanbul, per discutere di un accordo sulle ambizioni nucleari di Teheran, e tutti sostengono che la posta in gioco sia alta. Il presidente Obama ha addirittura avvisato i mullah che questa è la loro “ultima possibilità” di arrivare a un accordo sulle richieste della comunità internazionale. Altrimenti? Obama non ha specificato, ma c’è da capire gli Iraniani qualora non dovessero prendessero sul serio la minaccia implicita degli Stati Uniti.
Non è il primo incontro tra gli inviati di Obama (insieme agli altri quattro membri permanenti del Concilio di Sicurezza, più la Germania) e gli emissari della Repubblica islamica. Nell’Ottobre del 2009, mesi dopo i disordini causati dalle elezioni rubate di Mahmoud Ahmadinejad, vi furono grandi speranze sul fatto che l’Iran fosse pronto a raggiungere un “grande accordo” con l’Occidente.
“Gli esperti di Iran e gli analisti nella regione dicono… che l’Iran potrebbe essere infine pronto per un accordo”, riportava il New York Times. “Gli analisti segnalano un insieme di fattori, dalla crisi della politica interna iraniana al cambio della leadership a Washington, e un punto fermo: la leadership iraniana potrebbe aver raggiunto molto di ciò che si aspettava di ottenere quando attivò il proprio programma nucleare segreto nel 1999”.
Non è andata così. Dopo aver mostrato di accettare inizialmente una proposta che permetteva all’Iran di continuare ad arricchire l’uranio fuori dai suoi confini, l’Iran rifiutò l’offerta.
Lungi dall’essere soddisfatta del progresso raggiunto fino a quel momento sul piano nucleare, Teheran ha continuato ad arricchire le sue riserve di uranio a concentrazioni sempre maggiori e in siti più pesantemente difesi. Un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica dello scorso Novembre accusa quasi interamente l’Iran di nascondere la “dimensione militare” del suo programma nucleare, e agli ispettori dell’Aiea è stato ripetutamente impedito l’accesso ad alcuni siti militari sospetti.
Quindi quale speranza ci può essere ora per i negoziati? L’Amministrazione Obama insiste sul fatto che l’Iran stia soffrendo la stretta delle sanzioni finanziare firmate da Obama alla fine dello scorso anno, citando il deprezzamento della valuta iraniana come prova. Oppure c’è la possibilità che Israele possa attaccare l’Iran prima che raggiunga quello che il ministero della Difesa israeliano ha definito di recente la “zona di immunità” dagli attacchi.
Per quanto riguarda i termini dell’offerta che gli Stati Uniti sono pronti a proporre, sembrano cambiare di minuto in minuto. Si presume che Obama abbia mandato a dire agli iraniani, attraverso canali turchi, che gli Stati Uniti sarebbero pronti ad accettare il programma nucleare civile dell’Iran a patto che gli iraniani chiudano gli impianti di arricchimento sotterranei a Fordo presso Qom, rinuncino alle loro riserve di uranio in parte arricchito, e offrano garanzie verificabili sulla non volontà di costruire mai un’arma nucleare. Mercoledì, invece, il portavoce della Casa Bianca Jay Carney è parso ritrattare, chiedendo la “totale sospensione di arricchimento dell’uranio”.
Se fossimo al posto del regime iraniano, accetteremmo probabilmente qualunque accordo fosse messo sul tavolo. Ciò offrirebbe una tregua contro la possibilità di attacchi militari e porterebbe all’alleggerimento delle sanzioni. E i suoi termini potrebbero sempre essere violati in un momento più propizio, apertamente o in segreto.
Quindi, nuovamente, Obama ha dato all’Iran molte ragioni per credere di poter rifiutare del tutto un accordo, senza per questo fronteggiare nessuna seria conseguenza. Tanto per cominciare, il presidente non ha fatto segreto di essere opposto a un attacco militare da parte di Israele, cosa che potrebbe convincere Teheran che Israele non attaccherà in ogni caso o che lo farà sarà da solo, e quindi con minore efficacia. Il presidente ha anche dapprima opposto resistenza alle sanzioni, che ora sta strombazzando come il suo più grande risultato sull’Iran e come la ragione per la quale la diplomazia potrebbe ora avere la meglio.
Al Senato americano la pratica va in asse, laddove Harry Reid sta spingendo in questi giorni per un nuovo pacchetto di sanzioni dalle larghe maglie, il che darebbe all’Amministrazione ampia discrezionalità nell’applicare o meno le multe previste dal pacchetto. Il leader di maggioranza Democratica ha anche chiuso il pacchetto a emendamenti addizionali, tra cui quello proposto dal Repubblicano dell’Illinois Mark Kirk.
L’emendamento Kirk – che avrebbe avuto più impatto sull’Iran che tutto il resto del pacchetto messo insieme – avrebbe chiuso le vie di uscita delle sanzioni esistenti, inclusa una che permette a un pugno di banche iraniane (e al governo iraniano stesso) di continuare a fare affari con il resto del mondo.
Avrebbe anche rafforzato i requisiti di divulgazione per le banche straniere tentate di fare affari con l’Iran, mettendole efficacemente di fronte alla scelta se privilegiare legami d’affari con gli Stati Uniti o con la Repubblica islamica. Tutte sceglierebbero i primi, tranne per coloro con un penchant per le operazioni più disoneste.
Le sanzioni economiche sono sempre un gioco di ‘acchiappa la talpa’, e dubitiamo che esse possano convincere Teheran ad abbandonare le sue ambizioni nucleari. Ma la non volontà dell’Amministrazione di rendere le sanzioni il più efficaci possibile, proprio quando queste sono ritenute in grado di fornire agli Stati Uniti un potere diplomatico maggiore, dice molto sulla serietà dell’Amministrazione – o sulla totale mancanza di tale attributo. Gli iraniani sono sufficientemente furbi da rendersene conto.
In un’intervista sull’Iran concessa quest’anno da Obama al giornalista Jeffrey Goldberg, l’inquilino della Casa Biancha ha affermato che “come presidente degli Stati Uniti, non faccio bluff”. Siamo stati compiaciuti di sentirglielo dire, e sarebbe bello crederci. L’unico mistero è perchè stia facendo di tutto per spingere l’Iran ad andare a vedere il bluff.
Tratto dal Wall Street Journal
Traduzione di Matteo Lapenna