Le proteste dei prof. sono inutili. All’Università serve il sacrificio di tutti
10 Luglio 2008
Dico "colpito", e non stupito, perché in un buon numero di queste reazioni è evidente il carattere direttamente politico della protesta. Per chi odia il Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua coalizione, e per chi fa dell’antiberlusconismo l’unica bandiera e ragione di vita, ogni occasione è buona. Valga, per tutti, l’appello di Alessandro Morelli, professore ordinario di Chimica Biologica all’Università di Genova, il quale il 3 luglio sosteneva che il governo "progetta lo smantellamento dell’Università, nell’ambito di un più generale progetto di smantellamento dello Stato di Diritto". Morelli proponeva salvificamente che l’Ateneo genovese nominasse una "commissione di saggi" che formalizzasse una denuncia contro Berlusconi per la sua "protervia" contro la magistratura, i guai con la giustizia, nonché la sua interpretazione delle intercettazioni telefoniche "erotiche". Morelli terminava tuonando: "Qui la politica non c’entra. È questione di di dignità nazionale". Salvo pochi giorni dopo (9 luglio) sostenere che negli ultimi quindici anni è stato il "berlusconismo" il "principale protagonista e ispiratore di un terribile declino materiale ed etico" e invitare i colleghi a contattare "il Senatore Professore Francesco Pancho Pardi" dell’Italia dei Valori. Ma lasciamo perdere. Qui, come già detto, la politica c’entra eccome, e l’università non è che una scusa.
Veniamo invece al contenuto del coro di proteste. Qui in realtà, tutti dicono una cosa sola: vogliamo più soldi, più assunzioni, e l’intoccabilità dei cosiddetti diritti acquisiti. Si veda, per tutti, il comunicato del Comitato Direttivo Nazionale della cosiddetta Federazione Lavoratori della Conoscenza della CGIL (2 luglio 2008), che recita a pappagallo la solita solfa, tanto roboante quanto corporativa, che da anni la contraddistingue: "inaccettabile … scelta di procedere a significativi e rilevanti tagli e risparmi"; "processo di privatizzazione, finanziato con risorse pubbliche"; "attacco alla possibilità di mantenere nel nostro Paese un luogo di ricerca e didattica libero"; "attacco ai diritti contrattuali del personale tecnico ed amministrativo"; "grave la riduzione dei finanziamenti ordinari"; riduzione delle piante organiche; incremento del precariato e limitazione drastica del turn-over. E andate dicendo.
Il segretario generale della CISL, Antonio Marsilia, riprende la litania dei colleghi della CGIL, ma nello specifico lamenta la fine degli scatti biennali per i professori universitari e la riduzione di collaborazioni e consulenze alla Pubblica Amministrazione, "a volte" così "necessarie nella ricerca". La possibile trasformazione delle università in fondazioni (vedi sotto) è poi vista da Marsilia come il peggior di tutti i mali: "depauperamento generale per tutti gli Atenei"; fine delle garanzie per il diritto allo studio; trasformazione del rapporto di lavoro pubblico a rapporto privatistico "con tutte le negatività connesse, in primis la precarietà dell’impiego".
Se dunque non stupiscono né le boutades dei missionari antiberlusconiani alla Morelli-Pardi né i proclami vetero-corporativi di CGIL e CISL, colpisce però l’appiattimento su quelle posizioni dei docenti universitari, o quantomeno di quelli che hanno finora fatto sentire la loro voce. Appena ci toccano nelle nostre tasche (certamente più fortunate di quelle di altre categorie di lavoratori), diventiamo di colpo postelegrafonici, ferrovieri, taxisti, minatori, metalmeccanici, o pensionati. Diventiamo come tutti coloro che, nella peggior logica sindacal-qualunquista, predicano fine degli sprechi e riorganizzazioni, ottimizzazioni e efficientismo, purché siano sempre "gli altri" a subirne le conseguenze. Ma come? Non dovremmo essere noi universitari quelli che pensano, che innovano, che contribuiscono con la loro originalità, la loro capacità di analisi e l’unicità della loro specializzazione alla miglior formazione della società del presente e soprattutto del futuro? Forse che i bei discorsi sulla produttività scientifica e sul merito finiscono non appena si trasforma lo scatto biennale in scatto triennale? Non dovremmo essere proprio noi coloro che insegnano a contestualizzare e a riconoscere nello sviluppo della società la diversificazione dei ruoli?
Indubbiamente, il decreto legge ha dei pesanti risvolti finanziari sulle università (ma non necessariamente sugli enti di ricerca), con tagli di vario genere che qui non staremo a enumerare perché ormai ben noti. Questi riguarderanno gli stipendi di docenti e amministrativi, i trasferimenti ordinari dello stato e la riduzione del personale in essere e l’assunzione di nuovo personale almeno fino al 2013. Subiremo tutti le conseguenze di questi tagli e di queste riduzioni. Lo subiranno soprattutto quei giovani studiosi che continueranno ad andarsene dall’Italia per poter continuare a studiare e a fare ricerca. Ma forse questi anni di sacrifici (nostri) prepareranno la strada a una nuova generazione che potrà forse godere di un clima economico risanato, o quantomeno meno disastrato di quello che ci hanno lasciato in eredità trent’anni di malgoverno falsamente assistenzialista.
E colpisce ancor più che, tutti presi dal controllo minuzioso delle percentuali dei tagli di spesa previsti dal decreto, così poca attenzione sia stata prestata all’unica parte veramente politica del decreto legge, quella che riguarda la possibile trasformazione delle università in fondazioni. Al di là dei pochi cori ritualistici sulla supposta degenerazione privatistica degli atenei ("chi tutelerà la libertà di ricerca e di didattica"?, tuona la CGIL; "Non sarà più garantito il diritto allo studio!", minaccia la CISL), nessuno ha sottolineato il fatto che l’art. 16 prevede la possibilità (e non l’obbligo) di una tale trasformazione, che comunque questa deve essere approvata dal Ministero della Pubblica Istruzione di concerto con il Ministero dell’Economia. Nessuno ha sottolineato il fatto che le fondazioni saranno "enti non commerciali" che non consentiranno la "distribuzione di utili" e che "eventuali proventi … [saranno] destinati interamente al perseguimento degli scopi delle medesime". Non solo, ma che in quanto fondazioni le università potranno incentivare le donazioni private perché queste ultime saranno "interamente deducibili dal reddito".
In un recente articolo apparso su L’Occidentale ("La Gelmini deve osera di più se vuole ridare dignità all’Università"), apparso il 20 giugno, prima dunque di questo decreto legge, avevamo sostenuto che il ministro Mariastella Gelmini era stata fin troppo timida nell’enunciare i programmi della sua gestione universitara di fronte alla Commissione Cultura della Camera. Quanto contenuto nel decreto legge governativo del 25 giugno ci fa ben sperare in un futuro di riforma e di innovazione, anche se, cari colleghi universitari, saremo proprio noi a a pagare, insieme a tante altre categorie ben più sfortunate di noi, e purtroppo per alcuni anni, il costo delle dissennate politiche di spesa della gestione politica di tutta una generazione.