Le radici contadine del comunismo di Tito
25 Dicembre 2007
Eroe romantico fu senza dubbio Josip Broz, il partigiano
Tito, capace di fondare la nuova Federazione Jugoslava, ma anche di vestire i
panni del “dandy rosso”, il dittatore occhiuto che parlava tedesco, tirava di
scherma, si divideva tra una battuta di caccia all’orso, un calice di
champagne, i campi per dissidenti dell’Isola Calva, Elizabeth Taylor e Gina
Lollobrigida. Tito è stato definito l’emblema dell’uomo senza radici del XX
secolo, in grado di passare da un’identità all’altra, da una lingua all’altra,
eppure sia lui, sia il compagno Kardelj e gli altri pezzi da novanta della
nomenclatura jugoslava, ebbero tutti una giovinezza trascorsa in campagna. Il
comunismo jugoslavo può essere considerato una forma di volontarismo e quindi
di idealismo romantico: “l’uomo nuovo” era un contadino che doveva entrare in
fabbrica, per trasformare il tradizionale paesaggio rurale jugoslavo in un
moderno sistema industriale. Buona parte dei quadri del Partito furono
reclutati nei centri agricoli, oppure cooptati dai partiti contadini serbi e
croati o dalle vecchie organizzazioni come il “Dovere Contadino” (Seljacka Sloga). Il mito del contadino
combattente fu uno dei cardini della propaganda comunista durante la resistenza
jugoslava, sia tra i partigiani veri e propri – i contadini che avevano
imbracciato il fucile per ribellarsi a una condizione di vita senza prospettive
– sia tra i loro alleati, i Cetnici
del Colonnello Mihajlovic, fedeli al nazionalismo più bellicoso del “Club
Serbo”. I cetnici (ceta è la
bandiera) erano barbuti montanari guerrieri. Tito riuscì a servirsi di questa e
di altre immagini ‘pastorali’ per ottenere l’appoggio dei serbi ortodossi. E
l’Ortodossia sarebbe diventata la fede religiosa più tollerata e corteggiata
tra quelle della Federazione.
Trasformare i contadini in operai. Il Maresciallo non
sembrava spaventato da questo compito immane. La Costituzione
jugoslava del 1941 prevedeva che la terra finisse una volta per tutte nella
mani di chi aveva seminato il raccolto. Il nuovo stato comunista avrebbe
imposto dei limiti ferrei alla proprietà privata e favorito il processo di
“collettivizzazione” delle campagne. Nel 1945, alla fine della Seconda Guerra
mondiale, i contadini jugoslavi costituivano il 60% del Partito ma erano
sottorappresentati a livello istituzionale e venivano sorvegliati a vista. Tra
il ‘45 e il ‘49, il numero della Zadrugas,
le fattorie cooperative che dovevano sostituire la proprietà privata, passò da 31 a 6.300. Nel 1949 nelle
cooperative lavorava il 53% della classe agricola. Le terre in comune erano il
12% e ai proprietari era rimasto solo l’8% della torta. I contadini dunque
vivevano sotto pressione, ma da un punto di vista e culturale continuavano ad
essere esaltati come i pionieri antichi di un mondo nuovo. I miti dell’unità
socialista, della fratellanza tra i popoli legati all’Unione Sovietica, furono
usati in modo positivistico, apparentemente progressista, in una campagna
propagandistica che investì tutti i mezzi di comunicazione e abituò le classi
popolari al nuovo sistema della Pianificazione economica.
I giornali del Partito e del governo, Borba e Politika, la
sezione “Agitazione e Propaganda” (AGITPROP)
guidata da Milovan Gilas, la radio e le pubblicazioni popolari, favorirono il
diffondersi di una politica folclorica
finalizzata a pompare il volontarismo comunista fino a dargli un colore
“sacrificale”, di Terra riconquistata dal Popolo a prezzo del Sangue, una Terra
che stava per essere modificata per sempre, trasformata dalla rivoluzione.
Questa mitologia dei caduti torna
anche nella pubblicistica e nella letteratura italiana della e sulla
Resistenza. In Jugoslavia, la martirologia patria ispirò una serie di
rivendicazioni territoriali ben precise, sui territori contesi con l’Italia, ma
anche verso la Carinzia,
la Macedonia,
la Bulgaria
e la Grecia. La
politica condotta dal regime nelle campagne finì con il provocare le proteste
dei leader del radicalismo contadino, ostili alle Zadrugas, ai prelievi
obbligatori e alla meccanizzazione forzata dell’agricoltura. Questi ambienti
rimanevano pur sempre fedeli ai miti della Resistenza antifascista, ma per
tutta risposta Dragoljub Jovanovic, dirigente del partito agrario serbo, fu
arrestato e accusato di spionaggio. Solo un viaggiatore distratto avrebbe
potuto scambiare la
Jugoslavia del dopoguerra per un paese democratico.
In realtà, il comunismo jugoslavo è stato una forma di
modernismo reazionario che si è servito dei contadini, strappandoli dalle
campagne e reificando le loro tradizioni. La prima fase del Titoismo si
conclude così, con un’accorta opera di persuasione attuata dalle classi
dirigenti jugoslave d’accordo con la stampa e le classi intellettuali
favorevoli al regime (le uniche). Ma non c’era solo la questione agraria. Tito
doveva risolvere il problema dei confini, delle frontiere interne e della
natura federale dello stato jugoslavo. Anche stavolta in soccorso
dell’idealismo comunista arrivarono i valori irriducibili della fratellanza e
dell’unità socialista, un buon viatico per mettere al lavoro i volontari di
etnie diverse e fargli costruire la grande ferrovia proletaria, felici e
contenti. Il modello federativo Jugoslavo si ispirava a quello della
costituzione sovietica del 1936. Un sistema bicamerale con una Camera Federale
e una Camera delle Nazionalità, che rispecchiava la divisione sovietica tra il
Soviet dell’Unione e il Soviet delle Nazioni. Un solo partito comunista, ma
anche una costituzione per ognuna delle repubbliche federate, la Serbia, la Croazia, la Slovenia e la Macedonia, che si
guadagna lo status di Repubblica già nel 1944. La Costituzione del 1946
intendeva mediare tra le diverse rivendicazioni nazionalistiche, offrendo soluzioni
originali alle questioni di frontiera che agitavano la neonata Federazione; ma
l’elite comunista trascurò o peggio ancora scelse di risolvere con la forza
poliziesca il problema delle minoranze, come avvenne in Kosovo nel dopoguerra:
Tito bolla la regione come reazionaria e fascista, il Kosovo viene occupato
militarmente e ottiene lo status di regione autonoma della Serbia, ma non
l’indipendenza.
Il biennio ’45-’46, nonostante le devastazioni portate dalla
guerra mondiale, può essere considerato comunque un periodo di “calma forzata”
tra le componenti etniche della Federazione. Il compromesso raggiunto da Tito
con i contadini e con le classi dirigenti delle diverse nazionalità sembrava
garantire la tenuta delle frontiere interne. Tito mise un freno agli interessi
serbi, premiando nelle stesso tempo le minoranze serbe della Krajna e della
Vojvodjna, e riconobbe la comunità dei musulmani di Bosnia, a patto che
abbandonassero la sharia. Lo scopo
del Maresciallo era quello di creare una Federazione più stabile e moderna, libera
dalle sotterranee conflittualità etniche ed economiche. Ma erano solo belle
intenzioni.
La seconda fase del Titoismo è caratterizzata dall’utopia
dell’autogestione in politica interna
e dal non-allineamento in politica
estera. Nel 1948 la
Jugoslavia esce dal Cominform
e sceglie di creare un terzo fronte ‘neutrale’ rispetto alle potenze della
Guerra Fredda. Tito coinvolge India ed Egitto nella partita. Lo slittamento
della Federazione verso l’Occidente inizia negli anni Cinquanta, quando la Jugoslavia entra a far
parte del Patto Balcanico (1953) con la Grecia e la Turchia. Per gli
analisti di geopolitica questo può essere considerato il momento in cui inizia
una sorta di “adesione indiretta