Le ragioni della democrazia dalla fine dell’Urss alle rivolte nell’islam
20 Febbraio 2011
Sono passati esattamente 25 anni da quando Natan Sharansky, icona della lotta per la liberazione dell’ebraismo in Unione sovietica, camminò verso la libertà attraversando il ponte Glienicke di Berlino, all’epoca l’unico, stretto contatto tra blocco comunista e Occidente. Lasciava dietro di sé, dietro la cortina di ferro, una vasta comunità ebraica, ansiosa di seguire i suoi passi.
L’attesa non fu lunga. La crepa attraverso cui passò Sharansky si tramutò presto in una voragine. In meno di sei anni, nel mezzo del vertiginoso collasso dell’impero sovietico, non meno di 400 mila membri di quella comunità erano stati lasciati liberi di imitarlo, facendo di Israele la loro nuova casa.
Quel che rende questo anniversario particolarmente significativo è che coincide con un momento potenzialmente decisivo nella lotta della democrazia sul totalitarismo; un momento in cui i popoli del Medio Oriente, alcuni timidamente, altri con maggior convinzione, insorgono contro gli autocrati che li governano. Non fanno altro che chiedere quelle opportunità, quella condivisione nella scelta del proprio futuro, quelle garanzie di libertà di parola e di pensiero che persino la potente, grigia, terrorizzante burocrazia sovietica non fu capace di negare alle sue masse.
Quanto sta accadendo provoca nel piccolo stato di Israele comprensibili preoccupazioni: alla fine, ci si domanda, le genti finalmente libere del Medio Oriente quale strada sceglieranno? Pur con questo dubbio sullo sfondo, Sharansky è entusiasta degli avvenimenti. Sei anni fa, Sharansky pubblicò un libro – scritto insieme a Ron Dermer, attualmente consigliere del primo ministro – intitolato “Le ragioni della democrazia”, e significativamente sottotitolato “Come la potenza della libertà può sconfiggere tirannia e terrore”. Gli scettici e i cosiddetti esperti della regione non hanno fatto altro che commentare, da allora, che Sharansky, pur con tutti meriti che gli derivano dall’aver capito il mondo comunista ed essergli sopravvissuto, non ha compreso a fondo le antiche, amare regole del Medio Oriente. La lezione che gli veniva impartita da Ariel Sharon in giù, è che in questa parte del mondo tante esperienze sanguinose hanno da lungo tempo dimostrato che nulla può sconfiggere tirannia e terrore.
L’opzione migliore, per Israele e quindi per l’Occidente – così proseguiva il pensiero di gran lunga prevalente – risiedeva nel foraggiare i tiranni più presentabili. Una democrazia araba? Nient’altro che una contraddizione in termini. Così questo uomo piccolo e inarrestabile, che ha messo insieme lunghi periodi di dissidenza, prigionia, attivismo politico in 63 anni di vita, può adesso godersi un certo senso di rivincita nel 25° anniversario della sua liberazione. Per lui comunque è ben più importante rendersi conto dell’importanza del momento. Le proteste di massa, l’esser pronti a una rivoluzione – dice – è come quando l’acqua che bolle. All’improvviso esce dalla pentola, percorrendo una miriade di nuove possibilità. Ma appena si spegne la fiamma e il calore viene meno, i rivoli si prosciugano e l’acqua torna cheta nella sua pentola.
L’Iran, ricorda Sharansky, ha vissuto un momento come questo nemmeno due anni fa. Gli studenti e le associazioni intuirono la debolezza del regime. La protesta verso i governanti islamici tracimò nei giorni che seguirono le elezioni-truffa. Il popolo andò in ebollizione. Ma l’Occidente lo piantò in asso. L’Occidente e, più specificamente, un nuovo e inesperto presidente, esitarono. Il momento andò perduto. I mullah spensero la fiamma.
Questa volta invece, dice Sharansky in un’intrigante conversazione tenutasi nel suo ufficio di presidente alla sede centrale dell’Agenzia ebraica, Barack Obama sta inviando segnali azzeccati. E Israele, insiste, deve interiorizzare quanto siamo stati fortunati per il fatto che la rivolta stia scoppiando adesso, in paesi dove l’islamismo radicale non è ancora abbastanza forte da impadronirsi del potere e che per di più dipendono pesantemente dagli aiuti americani; in paesi, in definitiva, dove l’Occidente può riuscire a far sentire la propria influenza. Lo scellerato, insostenibile patto tra Occidente e i dittatori del Medio Oriente è stato reciso, come doveva essere, dice Sharansky. E’ stato reciso dal popolo. Sia fatta la sua volontà.
Sei passato da Berlino Est a Berlino Ovest l’11 febbraio dell’86. Vorrei parlare con te soprattutto delle analogie e delle differenze degli avvenimenti di allora e di oggi, tra l’Unione sovietica che proprio 25 anni fa iniziò a sgretolarsi e quella parte del mondo arabo in mano alle proteste popolari contro i dittatori che le opprimono. Iniziamo con le tue memorie di quell’indimenticabile giorno.
E’ stata una grande, continua ascesa [gioco di parole. Qui Sharanski dice “ascent”, ascesa, ossia la traduzione inglese del termine ebraico aliya, che indica il ritorno degli ebrei alla terra di Israele – ndt]. Iniziò la mattina precedente. Venni prelevato dalla prigione del Kgb di Lefortovo (dove nove anni prima era iniziata la sua prigionia per il delitto preconfezionato di tradimento e spionaggio a vantaggio degli Stati Uniti, prigionia che proseguì in un gulag siberiano). Mi diedero dei vestiti nuovi, per la prima volta in nove anni. Da due mesi aspettavo che accadesse qualcosa. Il mangiare era cambiato. Immaginai che forse il capo del Kgb volesse vedermi. Mi portarono via i miei vecchi vestiti. Quelli nuovi erano tutti molto grandi, non certo della mia taglia. Glielo dissi: “I pantaloni mi cascano, datemi una cinta”. Ma ero in prigione, e la cintura non me la diedero. Mi diedero però delle corde. Mi portarono all’aeroporto – ma prima li costrinsi a ridarmi il mio Libro dei salmi, – a una mezz’ora da Mosca. Era un aereo bello grande. C’eravamo io e quattro uomini del KGB.
Sapevi dove eravate diretti?
Non me lo dissero. Ma vedevo che viaggiavamo verso ovest. Per circa tre ore. Poi vennero a dirmi, in modo molto solenne, che “in accordo con le decisioni di non so quale Soviet Supremo, preso atto di comportamenti non confacenti a un cittadino sovietico,” venivo privato della cittadinanza sovietica ed esiliato dall’Unione sovietica. Allora fui io a parlare, un discorso su quanto fossi felice.
Un discorso a chi?
A loro. Gli dissi che volevo fare una dichiarazione. Mi dissero: “Non abbiamo più bisogno delle tue dichiarazioni. Possiamo finirla qui”. Ma pensavo che fosse un momento speciale, anche se ero su un aereo con quelle quattro persone soltanto. Ero veramente libero. Quindi feci una dichiarazione.
Ai quattro agenti del KGB?!
Sì. Dissi loro che mi sentivo molto felice, perché dopo tredici anni la mia richiesta [di partire per Israele] era stata finalmente accolta. E aggiunsi – era molto importante per me farlo – che non ero mai stato una spia. Che non avevo fatto altro che battermi per la libertà degli ebrei sovietici e degli altri. Che speravo arrivasse il giorno in cui ogni persona sarebbe stata libera come me in quel momento. Quindi lessi i miei salmi. Atterrammo. Ebbi una delusione: tutto attorno a me, c’erano i simboli della Repubblica democratica tedesca. Avevo pensato: finalmente rivedrò mia moglie. Quando incontrai l’ambasciatore americano a Berlino est, mi spiegò che lo scambio sarebbe avvenuto il giorno dopo, e che fino a quel momento sarei stato affidato al Kgb della Germania orientale, e che non dovevo creare alcun problema.
Mi portarono in qualche sito del Kgb in mezzo alla foresta, dove passai la notte. Non dormii neanche un minuto. Il giorno dopo mi portarono al ponte. Là, incontrai l’ambasciatore americano a Berlino ovest. C’era una linea bianca proprio nel mezzo del ponte di Glienicke. Chiesi all’ambasciatore: “Dove si trova esattamente il confine?”. “E’ questa linea”, mi rispose. Era così chiaro. Questa linea è l’Occidente. Libertà! Feci un balzo. La corda che teneva i pantaloni si ruppe, li ripresi al volo. Così, quando mi chiedono quale fu la prima cosa che pensai quando entrai in Occidente, rispondo sempre “che stavo per perdermi i pantaloni”. Mi portarono subito a un’automobile. Chiamarono il dipartimento di Stato, comunicando la mia liberazione. Chiesi di presentare i miei omaggi al presidente [Ronald Reagan]. Mi portarono quindi a una base militare, da dove sarei dovuto partire in aereo per Francoforte e di qui, con un altro aereo, per Israele. Sedemmo nell’aereo per venti minuti, poi ci comunicarono che i freni erano rotti e che dovevamo cambiare velivolo. Non potevo crederci. Non siamo su un aereo sovietico!, pensai. Questo è il primo aereo americano della mia vita, e i freni non funzionano!
Bene, cambiammo aereo e arrivammo a Francoforte. Lì vidi mia moglie, Avital, per la prima volta dopo dodici anni. Fu con lei, su un aereo molto più piccolo, che tornai in Israele. Era con me tutto il mio mondo. Arrivammo al Kotel [il muro di Gerusalemme – ndt]. Ripeto, è stata una grande ascesa. Da Mosca, primo aereo, secondo aereo, terzo aereo diretto al Kotel. Se c’è qualcuno che è andato dall’infermo al paradiso, ebbene, è così che mi sono sentito io. E’ stata una sensazione veramente intensa, ed è con me ancora oggi. Ovviamente, da allora l’unico percorso possibile è verso il basso; inevitabilmente, sto scendendo ormai da 25 anni. E sono ancora in paradiso.
E una volta lasciato il cielo, ti sei trovato libero in Israele, in grado di iniziare una nuova vita, per la prima volta libera. Come potresti descriverlo? Ti eri posto degli obiettivi? Ti sei forse detto: ora che mi è permesso vivere libero, voglio riuscire a fare questa determinata cosa?
In realtà fu tutto molto semplice. Non è che terminai una vita per iniziarne un’altra. Il grande cambiamento nella mia vita ci fu quando cessai di essere un fedele cittadino sovietico per diventare un dissidente. Ci fu un cambiamento a livello fisico, perché ti trasformi in una persona oppressa, ricercata, arrestata e così via. Ma cambiai anche mentalmente, perché diventai una persona libera.
Quanti anni avevi?
Avevo 25 anni, era il 1973. Venni arrestato quattro anni dopo. Da allora, fu una lunga battaglia. E quando ne fui fuori, come dissi all’aeroporto [in Israele], era ovvio che dovessimo continuare in quella battaglia, e non dimenticare chi stava ancora là. Ero un uomo libero in prigione e lo ero in Israele, con la differenza che adesso avevo molti più strumenti. Così continuai nella lotta, costruendo nel contempo una famiglia, dopo dodici anni. Anche quella fu una sfida. Immediatamente andai in America, dove spesi un sacco di tempo per organizzare la famosa manifestazione [per la liberazione dell’ebraismo sovietico, dicembre 1987] di Washington. Impiegai tre mesi per convincere l’establishment ebreo, e dovetti recarmi in visita presso diverse comunità per avere quella manifestazione [in modo tale che coincidesse con la visita del segretario del Pcus Mikhail Gorbaciov]. Fu d’aiuto il fatto che non mi sentivo come se avessi iniziato un capitolo nuovo della mia vita, o che fosse cambiato tutto. Era senz’altro diverso, ma nel senso di un piano più alto di uno stesso edificio del quale volevo raggiungere il tetto.
La sfida iniziale fu forse quella di riuscire a far fuggire gli altri, quelli che erano rimasti nell’Urss?
Da un punto di vista pubblico, fu proprio così. Da un punto di vista personale, semplicemente, dovevo continuare la lotta. C’è questo impero malvagio contro di te, ti ritrovi isolato in una cella di punizione ma senti che, in effetti, tutto il mondo ebraico ti è dietro in questa sfida. A quel punto avevo lasciato quella cella per Israele, grazie a Dio, ma la sfida restava. E implicava serrate discussioni con la classe dirigente. Si dibatteva se quelli che volevano andarsene dall’Urss fossero centinaia di migliaia, o piuttosto qualche migliaio. Più la cortina di ferro si indeboliva, più appariva chiaro che avevamo ragione: erano centinaia di migliaia. Ciò accrebbe il nostro impegno. Passai dalla lotta contro il Kgb a quella per agevolare il ritorno degli altri.
Quando parli dell’establishment, della classe dirigente, a chi ti riferisci? A quello americano, all’israeliano, alla diaspora?
Il confronto con l’establishment israeliano iniziò molto prima del mio arrivo in Israele, perché ero amico di Andrei Sakharov (il famoso fisico sovietico dissidente, Nobel per la pace, attivista per i diritti umani) e perché ero portavoce di due diversi movimenti, quello dei dissidenti e quello sionista. Ero visto come un pericolo da coloro che pensavano fosse possibile far uscire tranquillamente gli ebrei dall’Urss, pur di non inimicarsi il Kgb. Naturalmente, si trattava di un’idiozia. [L’establishment israeliano] credeva inoltre che mescolare il movimento dei dissidenti con quello per i diritti umani e quello sionista fosse assai pericoloso. Alcuni di loro divennero estremamente rigidi. Chiamarono mia moglie e le dissero che avevo oltrepassato ogni limite. Che sarei finito in prigione, e che non mi avrebbero difeso. Le dissero: si dimentichi di lui, le troveremo un altro marito. Si trattava di gente del Lishkat Hakesher (l’ente governativo di collegamento con la comunità ebraica nel blocco sovietico), che erano veri e propri commissari del sionismo.
Il primo anno dopo il mio arresto, in particolare, Avital (che era immigrata in Israele subito dopo il matrimonio, nel 1974, quando il suo visto d’espatrio venne concesso ma quello di Sharansky no) dovette portare avanti la sua lotta anche a dispetto dell’establishment, che cercava di fermarla dal difendere il mio nome in pubblico per paura dei problemi che il mio dissenso avrebbe potuto provocare. Questa è stata una prima area di confronto. La seconda era data dal fatto che l’establishment israeliano voleva che gli ebrei non andassero in nessun altro posto che Israele. Avrebbero magari preferito che l’immigrazione dalla Russia fosse stata più lenta, però volevano che, alla fine, andassero tutti in Israele. Io ero uno di quei sionisti che non era d’accordo con una pretesa del genere. Come anche l’establishment degli ebrei americani, queste persone non volevano essere viste come un soggetto che crea problemi. E in effetti non si trattava di gente cattiva, anzi di gente assolutamente per bene. Ma, per esempio, avevano paura di far coincidere una manifestazione con centinaia di migliaia di ebrei con la visita di Gorbaciov. Avevo detto che avremmo dovuto far scendere in piazza 400 mila persone, perché volevo restasse impresso il messaggio “400 mila americani sono qui perché 400 mila ebrei russi se ne vogliono andare”.
E loro: “Chi lo dice che ci sono 400 mila ebrei? Abbiamo una lista di appena qualche migliaio di refuseniks, dobbiamo parlare di loro”. E poi dicevano: “Tu vieni qua e ci parli di cose che non capisci. Centinaia di migliaia di ebrei non li vedrai mai a Washington d’inverno”. Quindi gli specialisti dell’establishment si mettevano a contare: “Potremo arrivare al massimo a 17 mila. In inverno, tanta gente non verrà, e ci farai sembrare ridicoli. Tu te ne tornerai in Israele, ma noi resteremo qui a scontare il fatto di aver promesso centinaia di migliaia di persone che non sono mai arrivate”.
Il terzo e più importante rilievo che mi veniva mosso era che “tutti parlano di pace. Gorbaciov, finalmente, è una brava persona. Ci sono tante speranze, e lui è qui per rappresentarle. Saremo noi ebrei a distruggerle?”. Mi resi conto che non sarebbe accaduto nulla di importante [per dare slancio alla richiesta di libertà degli ebrei nell’Urss]. Così, in agosto, andai negli Stati Uniti, anticipando la visita di Gorbaciov di dicembre. Visitai trenta comunità, ognuna delle quali era entusiasta della manifestazione. Alla fine, come aveva previsto Avital, l’establishment capì che, invece di resistere, doveva promuovere la mia iniziativa. Come disse Avital, “magari ti seguiranno, si prenderanno i meriti, e così saprai che avrai vinto”. Accadde esattamente questo. Fu una cosa meravigliosa. Parteciparono tutti. Era il 6 dicembre 1987. C’erano 250 mila persone, non 400 mila…
Comunque più di 17 mila.
Esatto. Lo stesso numero tirato su da Martin Luther King [alla marcia per i diritti civili del 1963]. E Reagan disse a Gorbaciov: “Lo vedi, la mia gente non mi permetterà mai di esserti amico” [a meno che gli ebrei dell’Urss non vengano lasciati liberi]. Il giorno dopo andai a Capitol Hill, e i congressisti ebrei si avvicinavano e mi dicevano: “E’ il nostro giorno più bello. Tutti i colleghi ci dicono che bisogna imparare da noi, gli ebrei”. Quella manifestazione fu tutto il contrario di un “problema”. Adesso, per di più, sappiamo dallo stesso Gorbaciov e da altre fonti quanto fu importante. Gorbaciov aveva bisogno di essere spinto, e quella manifestazione fu la pressione finale. Poi, dopo un anno, partì la grande ondata dell’aliya. E 400 mila persone arrivarono in Israele nei due anni seguenti.
Il totale, fino a oggi?
Più di un milione.
Quanti ebrei si trovano ancora nella ex Unione sovietica?
All’incirca un milione arrivò in Israele, un altro milione si trasferì in altri paesi e 850 mila persone che rientrano nella Legge del Ritorno si trovano ancora là.
Qual è l’attuale ritmo della aliya?
All’incirca 7mila persone arrivano in Israele ogni anno dall’ex Urss.
Più altri che vanno altrove?
No. L’ondata si è esaurita. Quelli che volevano andarsene in America, in linea generale, lo hanno già fatto.
Dunque, alla fine, gli ebrei russi “sono usciti”. Fase due: integrazione. Con una prospettiva di 25 anni, che bilancio si può fare?
Eccellente. Ovviamente, circolano tante storie circa un atteggiamento ingiusto della società verso i nuovi arrivati. Per la gran parte, sono fandonie. E’ naturale che ci siano frizioni, problemi burocratici. Ci sono ancora. Trovare una casa per gli anziani, il problema della conversione. Ma è un problema della società piuttosto che della aliya, e investe il significato stesso del legame tra lo stato ebraico e gli ebrei nel mondo. In termini macroscopici, abbiamo avuto un incremento della popolazione del 20 per cento. E’ come se tutta la Francia si spostasse in America. L’integrazione è stata un successo incredibile. La qualità media di vita [di questi immigrati] non è né più alta né più bassa di quella degli altri israeliani. Guarda a ogni ospedale, a ogni università, a ogni azienda hi-tech. A volte sembra che abbiano conquistato questo paese. Ci sono due ragioni per tutto ciò. La prima, è che la nostra società è assai favorevole all’idea di aliya. Nonostante tutti i tagli al budget statale susseguitisi nel corso degli anni, nessuno ha mai fatto problemi ad aiutare un ebreo che volesse tornare. La seconda, è che Israele è stato talvolta un po’ troppo impiccione con i nuovi arrivati, e l’aliya ha cambiato questo atteggiamento, prendendo il proprio destino nelle proprie mani. Anche quando l’establishment disse “no” all’arrivo del Teatro russo, quello, ciò nonostante, venne. E quando ci si rese conto che serviva uno strumento politico per riuscire a fare quello che andava fatto, creammo un nostro partito (Yisrael B’Aliya, attivo dal 1966 al 2003, quando confluì nel Likud). Per la prima volta nella storia, i nuovi immigrati entrarono nella Knesset e nel governo. E, cosa ancor più importante, nei municipi, il luogo in cui è concretamente avvenuta l’integrazione. Divennero così, gli immigrati, una parte attiva del processo decisionale.
Quale parte del paese ti sei lasciato alle spalle? Guardando indietro dal 2011, credi che l’Unione sovietica si sia democratizzata? O forse il clima politico, da quelle parti, sta degradando verso il totalitarismo?
La Russia è ancora lungi dall’essere un’autentica democrazia occidentale. Lo si vede soprattutto dal sistema giudiziario. Ma quelli che dicono che siamo nella stessa dittatura dell’era sovietica, sono ridicoli. Quello era un paese governato dal Kgb. Milioni di persone stavano nei gulag. C’era un esercito di informatori. Oggi è diverso. Quello che accadde là è molto simile a quello che sta accadendo qui vicino, adesso. La gente che vive sotto una dittatura, qualunque sia la sua cultura, sviluppa un modo doppio di pensare. Vive nella paura. E quando si presenta l’occasione di porvi fine, fanno quella scelta. (Fine della prima puntata, continua…)
Tratto da Jerusalem Post
Traduzione di Enrico De Simone