Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0

15 Dicembre 2016

Pubblichiamo la prefazione di Maurizio Sacconi a Le relazioni di prossimità nel lavoro 4.0 (Adapt 2016), gli atti del seminario “La fine del diritto pesante del lavoro nella Quarta rivoluzione industriale”, a cura di Sacconi ed Emmanuele Massagli. Qui per scaricare l’ebook in versione integrale.

Gli interventi qui raccolti sono il frutto delle riflessioni prodotte nell’ambito del seminario promosso dalla Associazione Amici di Marco Biagi sulla Fine del diritto pesante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale e di un primo commento alle novità introdotte dal nuovo contratto collettivo dei metalmeccanici e dalla intesa preliminare per la contrattazione nel pubblico impiego. Vi sono allegati anche alcuni atti parlamentari dedicati alla innovazione del tradizionale quadro regolatorio in termini di sussidiarietà verso le parti negoziali e le professioni esperte.

Le relazioni di lavoro sono qui analizzate nella loro funzionalità ai concreti obiettivi della sicurezza e della occupabilità delle persone come della competitività delle imprese, oltre i tradizionali “modelli” diventati spesso autoreferenziali. Se nella prossimità le persone che intraprendono e lavorano si incontrano naturalmente per condividere il destino delle loro comunità d’impresa ed i relativi risultati, nelle dimensioni più ampie si organizza il nuovo welfare in ragione della sua sostenibilità.

Il presupposto comune a tutti i contributi è la rivoluzione diffusa e geometricamente crescente nei modi di consumare, produrre, lavorare, ovvero nei modi di vivere, indotta dalle nuove tecnologie digitali. Esse aprono all’uomo nuove praterie della conoscenza e dell’azione. Possono diventare ragione di esclusione di molti dal lavoro, ma questo destino non è per nulla scontato. Si tratta ancora una volta di governare le novità continue affinché risultino massimi gli effetti positivi e minimi quelli negativi.

A questo scopo diventa preliminare assumere, per convinzione o per convenzione, una sorta di antropologia positiva a riferimento di ogni politica pubblica. Non solo l’uomo in sé come misura di ogni azione, ma la visione di un uomo che non è lupo verso i propri simili, che anzi ha una innata attitudine alla relazionalità, soprattutto quando lavora o dà forma a un’impresa. Solo liberando e capacitando ciascuna persona, la metteremo in condizione di dominare una tecnologia disegnata per sostituire l’intelligenza umana.

Ci deve aiutare un elementare principio di realtà, un metodo di osservazione e di esperienza. Ancor più nelle transizioni risulta pericolosa l’illusione di poter orientare le azioni umane in base a formule meccaniche. Al punto che nella stessa dialettica politica le tradizionali categorie sono sostituite dalla contrapposizione tra le varie espressioni del pensiero umanistico da un lato e di quello scientifico dall’altro. Nessuna tecnologia potrà mai sostituire il cuore degli uomini. È necessario essere positivi, non positivisti. La fiducia nel progresso è fiducia nell’uomo e nella sua capacità di piegare ogni parto della sua intelligenza alle sue stesse esigenze.

Negli anni recenti è parso invece che grandi processi reali come la crisi demografica, con la conseguente contrazione dello scambio virtuoso tra generazioni, potessero essere sostituiti da meccanismi artificiali come gli algoritmi che hanno orientato la finanza creativa e l’incremento della massa monetaria. E la stessa economia digitale, combinata con quella finanziaria, ha dato luogo a bolle che potrebbero presto rivelare la loro inconsistenza alimentando il circuito della instabilità. Fortunatamente un nuovo vento dell’ovest sembra risvegliare le coscienze e indurre i decisori ad un ritorno alla dimensione reale della produzione e del lavoro nelle comunità in cui si realizzano.

L’Italia è terra di piccole e medie imprese nonché, da sempre, di lavoro creativo che spesso si mette in proprio. Anche per questo sedimento la rivoluzione digitale avvicina e confonde sempre più i lavori, come preconizzava Marco Biagi. Dipendenti e indipendenti. Pubblici e privati. Perché tutti i lavori ora, con le nuove tecnologie e i processi orizzontali che determinano, si orientano a obiettivi e risultati, si sostengono con l’apprendimento continuo da fonti formali e informali, sono soggetti a fragilità cui devono corrispondere tutele personalizzabili in relazione ai diversi bisogni di ciascuno e di ciascuna fase di vita.

Secondo alcuni osservatori le piccole e medie imprese hanno sempre rappresentato un limite per lo sviluppo italiano ed ancor più lo sarebbero nella nuova dimensione tecnologica. Premesso che in ogni caso questo è il nostro punto di partenza e che nessuna ingegneria politica lo potrebbe immediatamente modificare, il risveglio della diffusa attitudine imprenditoriale può invece, ancora una volta, dare risultati straordinari.

Dobbiamo riorientare le attività educative e formative a risvegliare creatività e cultura del rischio. Aggiungo che il sistema bancario ha il dovere di individuare i modi con cui riportare nei territori, in prossimità, la valutazione del merito di credito affinché ciascuno sia incoraggiato ad avere idee ed a cercare di realizzarle. Così come dobbiamo attrarre capitale di rischio non sottovalutando, nella tradizione del nostro capitalismo popolare, le modalità di crowdfunding. Dobbiamo ripartire dal particolare e dalle situazioni concrete non dai modelli astratti.

La stessa fonte legislativa nel suo lento adattamento e nella sua rigida omogeneità deve limitarsi ad indicare i principi inderogabili lasciando ai duttili contratti la specifica regolazione degli interessi reciproci per obiettivi comuni. Nella contrattazione è significativa la trasformazione che proprio i metalmeccanici hanno saputo fare del loro tradizionale contratto collettivo nazionale.

Se ieri esso era uno strumento pesante e invasivo, che dettava alle più diverse imprese anche i minuti comportamenti e regolava incrementi retributivi egualitari, oggi è diventato soprattutto la cornice rivolta a capacitare e incoraggiare accordi adattivi di prossimità nelle aziende, nei territori, nelle filiere. In particolare, non solo indica la via con cui incrementare i salari collegandoli ai risultati anche ove non vi sono rappresentanze sindacali (e senza pretenderle), ma sollecita sperimentazioni che connettano il concreto accesso alle abilità e alle competenze con una interpretazione dinamica degli inquadramenti professionali.

Le parti della più grande categoria industriale hanno quindi saputo transitare da meccanismi inibenti la vitalità locale a logiche esplicitamente sussidiarie che invocano condivisione, adattabilità e partecipazione. Persino nelle pubbliche amministrazioni attraverso la nuova intesa quadro, al di là delle erogazioni immediate a ristoro della lunga moratoria e dei ridicoli incentivi alla “presenza”, le parti sembrano orientate a privilegiare la fonte contrattuale rispetto a quella legislativa, ad utilizzare la dimensione di prossimità per valorizzare, anche in termini premiali, le competenze e i «differenti apporti individuali all’organizzazione», a condividere i percorsi di efficienza e semplificazione, ad introdurre prestazioni sociali integrative quale, a regime, unico incremento del potere di acquisto legittimamente egualitario.

Ciò è potuto accadere perché sulle resistenze di alcune burocrazie confederali e di alcuni opportunismi categoriali, è prevalsa la consapevolezza circa il cambiamento epocale e le fatiche della transizione. Di colpo sembra davvero spazzato via il Novecento ideologico. Il conflitto di interessi quale regola delle relazioni industriali relegato in soffitta. La partecipazione dei lavoratori ai destini dell’impresa si fa cultura comune e si sostanzia innanzitutto nel fondamentale diritto a conoscere e ad apprendere nella concreta situazione di lavoro, ben lontano dagli schemi ideologici delle 35 ore.

L’empowerment del lavoratore è la base, la precondizione, della sua possibilità di rimanere incluso anche in presenza di tecnologie con la pretesa di sostituire l’uomo nel suo elemento più originale, l’intelligenza. Ed è evidente che una sostanziale esigibilità del diritto ad apprendere si realizza solo nel concreto delle situazioni di lavoro.

Implicitamente il nuovo contratto collettivo ha sdoganato l’art. 8 del d.l. n. 138/2011 perché la cassetta degli attrezzi che da ben cinque anni è stata messa a disposizione delle parti sarà, giorno dopo giorno, utile ad adattare le regole generali alle condizioni specifiche. Non deroghe che evocano il “peius” ma adattamenti per obiettivi in “melius” della produttività, dei salari, delle carriere.

Gli stessi inquadramenti professionali, sino a ieri rigida difesa delle capacità del lavoratore dal pericolo di un loro insufficiente apprezzamento, oggi devono essere ridefiniti dinamicamente affinché corrispondano alla evoluzione delle capacità dei lavoratori. Saggiamente, il nuovo contratto sollecita sperimentazioni nelle aziende allo scopo di monitorarne l’efficacia anche attraverso componenti premiali delle retribuzioni skill-based.

Nella transizione in cui si mescolano il vecchio e il nuovo, conviene a tutti che le regole generali diventino “cedevoli” nei confronti della autonomia assistita, di carattere collettivo e sempre più anche individuale. È cominciato il declino del pesante formalismo giuridico tutto e solo difensivo, fondato sulla antropologia negativa e sul presupposto della omologazione fordista del lavoro.

Abbiamo il dovere di accelerarlo per favorire la penetrazione dei diritti promozionali della autosufficienza della persona anche se l’assenza di sanzioni pubblicistiche a carico del datore di lavoro delude il vecchio mondo conflittuale. I diritti promozionali, le soft laws, le rigidità regolatorie confinate nei principi inderogabili, non sono strumenti impotenti se si rivelano volano per lo sviluppo della contrattazione.

Le teorie e le pratiche dei contratti aprono spazi di infinita fantasia civilistica per disincentivare i comportamenti opportunistici ed incentivare la convergenza degli interessi. Persino nell’ambito regolatorio più sensibile, quello dedicato alla prevenzione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, lo sviluppo delle buone pratiche partecipative auspicato dal nuovo contratto dei meccanici e l’evoluzione della scienza e della tecnica consentono di auspicare un approccio sostanzialista, fatto di minori adempimenti formali e di migliori risultati attraverso la prevalenza della “condivisione calda” sulle cose utili e validate rispetto ai pezzi di carta algidi e opachi.

Siamo peraltro solo all’inizio di un ciclo virtuoso per il quale sono ancora necessarie norme di sostegno della libera contrattazione. Lo Statuto dei Lavori, tanto sollecitato da Marco Biagi, dovrebbe essere il punto di arrivo di processi contrattuali che possono lievitare nei territori se diventa ben più sensibile e strutturale la tassazione agevolata dei salari variabili e maggiore la capacità delle parti di modulare l’orario di lavoro.

L’art. 8 dovrebbe essere esteso da un lato alla negoziazione individuale certificata e, dall’altro, alla possibilità di rimettere in gioco nella contrattazione di prossimità una parte del salario garantito dal contratto nazionale in modo da sostituire, anche per essa, l’aliquota marginale con quella agevolata. Così da premiare più significativamente le differenze di merito in relazione ai risultati e alle abilità acquisite tra i singoli lavoratori o gruppi di essi.

Lo stesso costo indiretto del lavoro può essere strutturalmente ridotto secondo un criterio di corretto sinallagma tra contribuzioni e prestazioni. I versamenti previdenziali, stabilita l’aliquota minima obbligatoria, devono poter essere oggetto di libera contrattazione per la parte aggiuntiva con la possibilità di accreditarli tanto al primo quanto al secondo pilastro. È giunta l’ora di esprimere, con il determinante consenso degli attori sociali, un nuovo modello di welfare della persona, sostenibile e inclusivo.

Possiamo assumere l’obiettivo di un secondo pilastro collettivo, a carattere tendenzialmente universale e operativo fino alla tomba, in cui siano integrate e modulabili le prestazioni previdenziali, sanitarie e assistenziali. Per tutti, lavoratori dipendenti e indipendenti, anche in relazione ai percorsi sempre più diversificati della vita attiva, in modo che non un versamento vada perduto e che sia adattabile ai bisogni di ciascuno in ogni fase del ciclo vitale.

Noi non ci dobbiamo rassegnare alla prospettiva di un mercato del lavoro che include pochi ed esclude molti. Cui riservare un reddito di cittadinanza trasferito a domicilio da una entità centrale affinché consumino e non disturbino la quiete pubblica. Per questo la prima tutela è l’apprendimento, con il corollario di una certificazione continua dei progressi realizzati nelle abilità e competenze a partire da un programma straordinario di alfabetizzazione digitale degli adulti e da politiche di collocamento mirato degli inoccupati e dei disoccupati, fondate sulla loro libera scelta dei servizi cui vogliono rivolgersi in modo che siano remunerati in base all’effettiva occupazione acquisita.

Il sogno della piena occupazione si ripropone sulle basi nuove e più concrete della quarta rivoluzione industriale se i cambiamenti non sono lasciati a se stessi. Servono valori, visione e pragmatismo. Si può fare, si deve fare.